“BISOGNA ESSERE NELLA CIVILTÀ, MA NON DELLA CIVILTÀ”

– Fra Indi  

Francesco, nella nostra prima chiacchiera telefonica hai parlato di emergenza ecologica, cosa intendi esattamente?

“Dunque, tutto è nato così: sono andato a vedere la definizione di ecologia e ho ragionato sull’idea che abbiamo generalmente dell’ecologia. L’abbiamo sempre accostata a qualcosa di verde, di pulito, alla tutela dell’ambiente. E col tempo nell’immaginario collettivo ecologia è diventato effettivamente il termine che indica la tutela ambientale. Il problema è che l’ecologia non riguarda solo l’ambiente. L’ecologia di per sé è una scienza, un insieme di rapporti tra un soggetto e tutta una serie di altri soggetti. Riguarda rapporti ambientali, certo, ma anche sociali, naturali… Quindi c’entra il clima, il rapporto con la natura, ma anche quello con gli altri. Tutto è ecologia.

Ecologia significa interazione tra i viventi e il loro ambiente. L’essere umano originario, tradizionale, è un essere ecologico poiché la sua esistenza è costruita su rapporti con l’ambiente: animali, vegetali, minerali altri esseri umani. Quindi quando dico che l’emergenza che stiamo vivendo è ecologica, intendo che è sì climatica e ambientale, ma se noi in modo utopistico, dovessimo risolvere l’emergenza climatica, non avremmo comunque risolto l’emergenza ecologica”.

Quindi fai riferimento anche ai rapporti umani, ad aspetti sociali…

“Sì, se noi non andiamo a individuare la causa primaria di questa emergenza ecologica, andremo avanti a risolvere singoli problemi, ma l’emergenza perdurerà. L’emergenza per sua natura deve finire. Ha una data d’inizio e una di fine”.

Immagino che tu ti sia fatto un’idea della causa primaria dell’emergenza ecologica…

“Sì, e non lo affermo in modo supponente o saccente, non sono l’unico a sostenerlo. Quando grazie a una serie di osservazioni, studi e letture sono arrivato a capire che forse il problema era quello, credimi, è stato uno shock perché mi sono reso conto di essere dalla parte “sbagliata” della barricata. La causa è la civiltà”. 

Intendi la società moderna?

“Non è qualcosa che riguarda l’ultimo secolo, o l’ultimo millennio. È qualcosa di molto più antico. Si è posto in essere un problema, perché la civiltà ti pone all’interno di una struttura lontana dalla natura. Tant’è che noi viviamo in una società, la società civile”.

Ma dove dovrebbero vivere gli uomini? 

“Gli uomini tradizionali vivono in una comunità, non in una società. A contatto e in rapporto con la natura, non vivono nelle città che sono gli ambienti dove tutto è finto e tutto è artificiale. Se non ci focalizziamo su questo problema, possiamo risolvere persino la fame nel mondo, ma avremo sempre un altro problema pregresso da affrontare. E lo capiamo meglio se andiamo a vedere come si sta approcciando recentemente il problema ambientale. Oggi si pretende di creare qualcosa che sia sostenibile, ma che non ci faccia perdere ciò che abbiamo raggiunto in termini di progresso. Si dice che tutto possa essere sostenibile: consumismo, finanza, stile di vita… Ma se tutto quello che ci ha portato a questi problemi non lo cambiamo radicalmente, stiamo mettendo orpelli verdi. È la civiltà che si scontra con l’andamento naturale”. 

Quindi è da qui che nasce l’idea di andare a cercare un’immersione totale nella natura? Dalla volontà di staccarsi dalla civiltà?

“Oggi come oggi penso sia se non impossibile, estremamente complesso staccarsi dalla civiltà. Perché a quel punto dovrei sparire…”

O banalmente io dovrei prendere appunti invece di registrare dal computer quest’intervista…

“No, vedi questo a mio parere è un errore. La tecnologia è uno dei pochi fattori che ci potrebbe portare fuori, potrebbe portarci a un miglioramento, perché la tecnologia, se non diventa abuso o dipendenza, è semplicemente uno strumento. Quello che vediamo oggi è l’abuso, la dipendenza. Se la tecnologia è usata bene, è uno strumento validissimo. Quando dico che uscire totalmente dalla società è quasi impossibile, uscirne radicalmente cambiando la nostra struttura, invece, è possibile. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini. Aderire a uno stile di vita coerente a ciò che si cerca di comunicare, anche nel proprio piccolo. Bisogna scegliere. O essere coerenti, o essere coscienti che siamo dentro una narrazione. Io ho scelto di vivere questo percorso a livello personale, per i fatti miei, senza comunicarlo. Ma poi ho riflettuto e credo che offrire spunti di riflessione sia forse più importante, quasi un dovere”.

Bè, si tratta di una responsabilità.

“Sai, noi crediamo di essere l’apice dell’evoluzione e questo è un errore madornale. Ecco perché il titolo “The Way”. Se noi non ci mettiamo nell’ottica di essere in un cammino evolutivo e non all’apice, abbiamo già perso. Quando parli di ecologia, la gente ha un’immagine parziale di quello che è. In realtà camminare nel bosco, fare l’orto così come intrattenere rapporti positivi e propositivi con le persone, ecco queste sono tre azioni che possiamo tranquillamente definire ecologiche. Sono interazioni che vengono aperte, coltivate, sviluppate. E l’evoluzione ci porta a svilupparci, a evolverci in termini di coscienza. L’evoluzione è, appunto, un cammino. The way è un mettersi un cammino sia fisicamente che interiormente. E se ti evolvi tu, si evolve il mondo che vivi. Ecco perché considerarsi l’apice, considerarsi “arrivati” è deleterio”.

Parlando di preparazione mentale, la preparazione per questo viaggio è iniziata l’estate scorsa, giusto?

“Ni. La preparazione in realtà non ha una data di inizio perché riguarda anche i miei cani. I cani vanno messi in condizione di conoscere le situazioni che andranno ad affrontare. Quindi cerchi di ricostruire per loro situazioni fisiche che potrebbero ripetersi durante il viaggio. Si tratta di cercare uscite, allenamenti con tempo avverso, con pioggia, vento, con neve alta… Li abitui a dormire in tenda, a stare fuori più giorni, a fare più pause durante le uscite lunghe per abituarli a stare fermi. Durante il viaggio affronteremo molti laghi ghiacciati, situazione non frequente in Italia. Quindi li ho fatti correre sul ghiaccio. E la loro percezione è molto diversa, li vedo. Riconoscono il vuoto sotto lo strato ghiacciato coperto di neve. Si lavora su questo. La preparazione di un cane inizia quando nasce, in realtà. Parte dai giochi, dal tempo che passano con me, quando mi guardano preparare l’attrezzatura. Insomma, le uscite di allenamento durano 24 ore. C’è un costante dialogo e questo rafforza il lavoro mentale e quello d’azione. Forse è proprio questo il significato profondo della parola team”. 

E la tua preparazione?

“La mia preparazione mentale invece è legata a lettura e scrittura, alla meditazione, ma paradossalmente anche a quando spacco la legna. In realtà la mia preparazione è legata soprattutto all’immaginazione. Ed è un costante dialogo con la paura. Io diffido delle persone che non ridono e di quelle che non hanno paura. Perché la paura è il campanello d’allarme che ti risveglia i sensi e ti fa restare cosciente. L’alternativa è il terrore”.

C’è tantissima immaginazione in quello che fai…

“Mi viene in mente Walter Bonatti, esploratore e scrittore. Un uomo curioso che ha avuto il coraggio di mollare l’alpinismo per scoprire il mondo. Lui dava un grande valore all’immaginazione che ho fatto mio sia nelle parole che nei fatti. L’immaginazione è più importante dei sogni. Perché tu puoi avere un sogno, però resta lì. L’immaginazione invece è quella scintilla creativa che ti fa dare forma al sogno indipendentemente dal fatto che tu lo realizzi o meno. Realizzare un sogno che stai immaginando e stai costruendo dentro di te non è importante, perché il solo fatto di poterlo immaginare ti fa affrontare la vita in maniera diversa. Non sei ossessionato dal risultato in un’epoca in cui la civiltà ti dice che quello che conta è la tua performance. A scuola ti dicono che l’importante è il voto e non quello che apprendi. È così sul lavoro, sulla produttività. Nello sport. Lo sport agonistico, competitivo è un altro esempio. L’immaginazione non ha bisogno della concretizzazione per dare forza a sé stessa e quindi per migliorare l’individuo, basta che ci sia. Quando io preparo una spedizione la immagino intensamente e l’immaginazione mi permette di superare gli imprevisti. Ti crei nella testa situazioni che potresti incontrare e quando effettivamente le incontri, sei in qualche modo più pronto. Ecco perché mi piace definire l’esplorazione come un atto creativo”. 

Tieni un diario di viaggio?

Si. Per scandire i giorni innanzitutto, e tenerne il conto, altrimenti dopo il quarto li perdo…”.

Passa in modo diverso il tempo quando sei in viaggio?

“Che cos’è questo?”

Un orologio.

“E cosa segna?”

L’ora.

“E chi ha deciso che adesso sono le 15:28?”

È una convenzione.

“I tempi sono due. C’è il tempo della civiltà, che è la convenzione, e c’è il tempo della natura. Quando sono fuori, il mio ritmo vitale e quello dei miei cani è scandito da un altro tempo, che è quello della natura. Se alle 7 è buio è inutile che mi alzi. Se alle 17 è buio cerco già di essere in fase di preparazione per la notte”.

Inutile chiederti quale dei due tempi ti appartenga di più.

“Guarda, io sono allergico agli orologi. Mi sto abituando a questo perché legge i chilometri e lo devo portare con me in viaggio. Il tempo naturale sarebbe l’ideale. Non ho mai visto un Aborigeno australiano o un Pigmeo stressati. Stress, depressione, sono malattie del nostro TEMPO. Ma non della nostra epoca, proprio del nostro tempo. Viviamo con il cartellino in mano anche se non lo dobbiamo timbrare”.

Quando assecondi il tempo naturale vivi momenti di noia o provi la sensazione di non utilizzare il tempo nel modo più proficuo? O è una dimensione nella quale entri e ti senti sempre a tuo agio?

“È una cosa che mi chiedo spesso anche io. Sto sprecando il mio tempo o no? Magari mi fermo ad osservare una montagna per un’ora. Non ho una risposta, ma per cercarla penso: ma gli animali cosa fanno? Ogni tanto guardo i miei cani. Sono lì in fissa. Sono IN QUEL MOMENTO. Mi viene in mente la definizione degli antichi romani dell’ozio. Oggi l’ozio è la perdita di tempo. Allora invece era considerato il momento in cui stavi con te stesso, coltivavi te stesso, parlavi con te stesso, pensavi. Nei momenti vuoti io parlo a volte anche a voce alta, e magari la sera in tenda trascrivo quei pensieri. Il momento vuoto, il momento del niente da fare in realtà è un valore. Nelle culture orientali il vuoto è un valore, è positivo”. 

Dettagli tecnico pratici: com’è organizzato il viaggio?

“Partenza il primo febbraio dall’Italia. 36 ore di van e poi giornata di assestamento. Se i cani saranno tranquilli usciremo in slitta per farli abituare al tipo di neve e ambiente. Poi partiremo. Sarò costantemente in contatto con il team grazie al satellitare. Se tutto va bene tra il 26 e il 28 febbraio dovrei aver terminato i 480km di spedizione”.

The Way è un progetto di esplorazione importante. Quanti anni di preparazione ha richiesto?

“In realtà meno di un anno, lavorandoci 7 giorni su 7. Ti assorbe completamente, ma per me è il lavoro più bello del mondo. Almeno adesso. Lo dico sempre: i cani non sono la mia vita, sono una parte fondamentale della mia vita. Grazie a Dio ho anche un’altra pluralità di interessi che mi salva e non mi rende monotematico. Se un domani volessi anche semplicemente godermi la vecchiaia dei miei cani non avrei alcun tentennamento. Mai precludersi nuove strade o fossilizzarsi su un’attività”. 

A cosa giocavi da piccolo? Che libri leggevi?

“Giocavo già all’esploratore. Mi hanno sempre affascinato le storie di Jules Verne. In realtà vivo la montagna da quando ero ragazzino, uscivo spessissimo in esplorazione dormendo fuori la notte con tende arrabattate in giro e mangiando scatolette di tonno. È così che ho iniziato a conoscermi, a conoscere le mie reazioni alle condizioni naturali, anche di pericolo. Quando ho aggiunto i cani ero pronto a prendermi cura di altri esseri viventi anche in contesti difficili. Poi che altro facevo… Ho iniziato a dipingere, ho frequentato il liceo artistico, mi sono laureato in storia dell’arte, ho curato mostre, ho avuto a che fare con artisti il cui rapporto con la natura era forte tanto quanto il mio”.

Come sei passato dall’arte al mushing?

“In Italia sono pochi gli enti che supportano effettivamente le iniziative dei giovani. Se decidi di intraprendere una strada creativa sei spesso ostacolato, anche dalla famiglia o dal contesto sociale. Non è facile viverci. Un pomeriggio stavo camminando sui prati qui sopra casa ho pensato: forse la natura non la devo cercare, devo semplicemente aprire gli occhi. Questo concetto lo devo al mondo dell’arte e l’ho traslato nella mia attività di esploratore. Il come usare gli occhi, intendo. Noi siamo abituati a utilizzare tre verbi come sinonimi: guardare, osservare, vedere. In realtà vogliono dire tre cose completamente diverse. Quando ti approcci a qualcosa di nuovo lo guardi, poi lo osservi, cerchi di carpirlo nei particolari e nei dettagli. Quando arrivi a vedere il significato e il valore significante di ciò che stai guardando, alla fine la vedi. Vale per le opere d’arte, ma anche con i cani, si può fare con la natura. Una volta pensavo che cercare la natura in un’opera d’arte, in una creazione dell’uomo, fosse una via corretta. Ora ho capito che è esattamente il contrario. Che basta aprire gli occhi e imparare il processo per vedere la realtà. E quando guardo e osservo i miei cani so che loro vedono la realtà, sono consapevoli di quel preciso momento, il loro ragionamento ruota attorno a quell’istante. Se oggi devo pensare a un essere libero penso agli animali, non certo all’essere umano”.

Hai mai avuto detrattori?

“Ti rispondo con una battura di Franco Battiato, con il quale ho avuto il piacere di aver a che fare per due anni quando decisi di scrivere la tesi sui suoi dipinti. Disse “Detrattori, alla larga da me!” che sta a significare, in sostanza, rodetevi pure il fegato, ma molto lontano dalla mia persona. Lui la spacciava per una frase di un mistico del 600, ma credo invece fosse proprio sua. Comunque si, ne ho. Nel mondo dei cani. Una volta una persona mi ha detto “Tu ti sei creato una nicchia, che è tua. Sei stato il primo a fare certe cose e chi verrà dopo lo sa”. Io non mi considero propriamente un musher. Una volta Federico Taddia, giornalista, autore e paroliere, mi ha definito un musher atipico perché, soprattutto in Italia, il musher fa gare. Io faccio gare ogni tanto, ma non per vincere. Lo faccio per incontrare persone, per provare i cani in determinati contesti, ma non per la gara in sé. Accade in ogni mondo, sportivo, artistico, culturale… Che ti guardino, magari ti copino. Mi innervosisco, ma si va oltre. Io sono stato fortunato, ho incontrato all’inizio del mio percorso delle belle persone a livello umano che mi hanno guidato e ispirato”. 

Hai mai pensato di insegnare il mushing?

“Tengo incontri, conferenze, momenti di condivisione. Per esempio per il Club Alpino Italiano di Gavirate che tra l’altro finanzia parte della mia spedizione. Con loro faremo tutta una serie di manifestazioni con le scuole. Per il resto non ho qualcosa da insegnare, tutti possono apprendere, a volte basta mettersi in ascolto, leggere determinati testi. Sto scrivendo un libro, mi serve portare a termine l’esperienza svedese per finirlo. Scrivere è un modo per arrivare alle persone, quindi da quel punto di vista spero di essere utile, ecco”.