Nell’insindacabile masochismo che permea ogni sano moto viaggiatore, si ritrova spesso la meravigliosa attrazione verso i luoghi freddi e inospitali, che sacrificano in nome dell’avventura e di panorami incantevoli ogni residua parvenza di comfort, per abbracciare chili di abbigliamento tecnico, soluzioni alla MacGyver e un’irrefrenabile ricerca di benessere e vitalità. Il mondo oggi è un po’ più piccolo e sovraffollato, non è così facile soddisfare certe pulsioni senza ricadere nella vana (e vanesia) impresa. Dove sono finite quelle belle destinazioni da vivere in solitaria, da non condividere, tanto fredde fuori quanto calde nel cuore?
No, non parliamo di Capo Nord… Non parliamo assolutamente di Capo Nord. Per carità, la meta resta ambita da ogni motociclista desideroso di spingere le proprie ruote fuori dagli italici confini. Pur mantenendo una certa suggestione, però, risulta oramai ampiamente inflazionata. Quasi fosse un “tagliando” per certificare lo status di viaggiatore nella fiera delle vanità che è il mondo, oggi. E questo non è neppure il peggiore dei problemi. In primo luogo è risaputo che il “vero” Capo Nord – inteso come punto più settentrionale continentale – non è quello. Inoltre, dettaglio non proprio trascurabile, l’itinerario per raggiungerlo galleggia pericolosamente sul filo della mediocrità, quasi a rovesciare il dogma che individua nel percorso il significato più profondo e filosofico del viaggio.
Messo da parte il famoso “globo” norvegese, ecco dove si potrebbe puntare l’anteriore per ritrovare quella magica combinazione di freddo, isolamento e meraviglia in cui amabilmente naufragare.

Canada, lost & found
Facile dire Canada, ma ci sono minimo dodici ore di aereo e dieci milioni di chilometri quadrati di superficie tra cui scegliere. Voglio qualcosa di più sartoriale, da ricamarmi addosso curva dopo curva, senza puntare il dito su qualche grande parco, e vincere facile. “Zooma un po’ su quelle mappe, scalfisci l’involucro di pigrizia, vai in profondità di quei toponimi vagamente coloniali”. Me lo sono ripetuto e, cosa ancor più incredibile, ha funzionato. Quindi bussola a est e punto di partenza Montréal o Québec. Attraversate dall’imponente fiume San Lorenzo, le due citadelles brillano per la loro anima cosmopolita e dinamica. Non mi vergogno a sentirmi bene qui, in un contesto capace di mantenere in perfetto equilibrio l’elegante eredità franco-britannica e la modernità tipica delle grandi città del continente nord-americano.

È tutta una belle epoque nella Vieux-Montréal, l’antico centro storico un tempo circondato da mura. Saranno anche familiari, ma le architetture del Montreal Museum of Fine Arts o della basilica di Notre-Dame meritano. Così come i ritmi slow-motion della rinnovata area del vecchio porto, anticamera del Belvédère Kondiaronk dove ci sta più di una foto panoramica. Québec, invece, accoglie con atmosfere decisamente più romantiche. Io, che non sono propriamente un redivivo Victor Hugo, mi rifugio sul lato storico. Le alte mura di cinta e la vista spettacolare del grandioso Château Frontenac sono un bel diversivo. La forza della natura trova spazio poco fuori dal centro dove le cascate Montmorency stupiscono per la loro altezza, superiore anche alle blasonate Niagara Falls.
Esaurita la mia dose di socialità è tempo di partire verso luoghi decisamente più freddi e con una minor densità abitativa. L’enorme estuario del San Lorenzo, che dà vita all’omonimo golfo, permette persino di scegliere tra due direttive. La via verso sud porta nelle terre della Nuova Scozia, una garanzia già nel nome. Sferzato dall’aria gelida mi spingo fino all’isola del Principe Edoardo per vivere atmosfere New England style tra graziose cittadine e suggestivi fari. Bras d’Or Lake e Cape Breton, nel cuore dell’Highlands National Park sono il mio momento catartico: il freddo mi insegna ad amare ancor di più la mia moto e i panorami costieri li deve aver disegnati qualcuno che mi conosce proprio bene. Per sentirmi la natura addosso non resta che sostare in uno dei tanti campeggi lungo il Cabot Trail, la più importante strada panoramica della regione. A Kayak Cape Breton & Cottages, seduto nella mia tenda sotto un’infinità di stelle, penso alla foto in posa davanti al globo di ferro norvegese e mi scaldo un altro marshmallow.
Duri e puri della wilderness? E allora al precedente bivio meglio prendere la via verso nord e seguire la Route Jacques Cartier, intitolata all’esploratore francese che per primo si avventurò in questi territori. Divagazioni come il Parco nazionale del fiordo di Saguenay e l’osservazione delle balene a Les Bergoronnes sono solo l’antipasto di un viaggio nelle profondità delle foreste boreali che da Baie-Comeau porta nel cuore della provincia di Labrador-Terranova.
La strada si chiama Expedition 51° e già il nome mi accende pulsioni primordiali. Quasi seicento chilometri (di cui duecento sterrati) solo per raggiungere Labrador City e poi altri mille attraverso la Big Land fino alle coste atlantiche nei pressi di Red Bay. Il climax arriva graduale fino ad esplodere alla vista delle Newfoundland, che nel loro stesso nome racchiudono il significato di questo viaggio. È come l’assordante accordo di piano di quella A day in the life di beatlesiana memoria, non quell’impatto da pugno nello stomaco che toglie il fiato. L’aria entra in dose massiccia nei polmoni trasmettendo quello spirito vitale che solo il grande freddo è in grado di custodire. Penso non sia un viaggio per tutti, ma in questo caso le imprese non c’entrano.
Serve molto, molto coraggio a sapersi perdere e ritrovarsi così felici, qui.
Giappone, per liberare lo spirito
瓶割るる夜の氷の寝覚め哉
kame waruru yoru no kōri no nezame kana
il vaso si frantuma
in questa notte di ghiaccio
il risveglio
Matsuo Bashō (1644-1694)
Mentre le diciassette sillabe di questo haiku mi rimbombano nella mente accompagnate dal suono ipnotico del koto, si vola in Hokkaido, l’isola più settentrionale dell’arcipelago nipponico. Un Giappone atipico, dove il tradizionale contrasto tra antico e moderno appare più sfumato e la forte identità culturale risulta meno granitica e più aperta alle contaminazioni. Qui niente eccessi, gadget da Harajuku Girls e altri stereotipi che mi fanno affilare come un coltello Santoku. Da queste parti, in questo periodo, vincono la neve e i lunghi inverni. La storia di questa regione, colonizzata a spese della popolazione Ainu e popolata dopo la fine della politica di isolamento del Paese (dai, aprite Google e approfondite “epoca Meiji”), hanno tracciato un percorso evolutivo ben diverso rispetto al resto del Paese. È sufficiente immergersi nelle due principali città a sud dell’isola per comprenderlo.

Hakodate, porta d’accesso alla regione, è un bel mix di influenze architettoniche europee e orientali. Prima tappa alla Red Brick Warehouse, autentico complesso industriale nei pressi del porto che ospita negozi e locali tradizionali. Cammino con il mio bel cesto di crocchette preso da Patate Hakodate (si chiama proprio così) mentre mi godo l’atmosfera. La torre di Goryokaku regala un panorama mozzafiato sull’omonimo edificio storico, situato nel centro di uno strabiliante parco a forma di stella. Per chiudere la giornata sconto i miei peccati salendo in notturna sul monte Hakodate, venendo però ripagato da una vista sulla baia che mi riappacifica con il mondo.
Sapporo invece mi proietta in una città costruita sul modello nordamericano, con strade perpendicolari e architetture occidentali. Odori Park, oltre a tagliare la città da est a ovest, ne è il vero cuore pulsante: divertimenti, eventi e relax… Tutto si svolge lungo i quasi due chilometri della sua estensione. Non ho motivi per negarmi una passeggiata, assaggiando le specialità culinarie dell’isola e gustando la birra qui prodotta, conosciuta in tutto il mondo.

Abbandonata la città, mi trovo di fronte ad un Giappone diverso, dove la natura è riuscita a porre un inevitabile freno all’urbanizzazione e ha dunque il netto sopravvento. La vita rurale, nel senso più tradizionale del termine, non ha ceduto alle lusinghe della modernità e lo si vede una volta arrivati nei piccoli centri di Furano e Biei. Colline che in estate sono ricoperte da campi di fiori e distese di lavanda, attraversate da sentieri e costellate da piccole fattorie, ora sono un’incredibile susseguirsi di morbido bianco. Ma in che posto incredibile sono finito?! Anche l’animo più rude e brutale si ammorbidisce in un contesto del genere e io non faccio differenza. Sensazione che si rinnova di fronte allo stagno blu di Shirogane, che apre la strada verso il parco nazionale di Daisetsuzan e le sue vette, tra le quali spicca l’antico vulcano Asahi (no, la birra che bevete nelle vostre scofanate all you can eat non ha nulla a che fare…).

Si prosegue dritti verso est, lambendo le sponde del lago Akan sovrastato dal vulcano Oakan, dove riecheggiano le memorie dell’antica civiltà Ainu, il cui patrimonio culturale è qui preservato. Poco distante si apre la zona umida di Kushiro, dove l’onnipresente vento soffia attraverso la palude e il birdwatching mi insegna ancora una volta cosa significhi saper aspettare.
Il climax è dietro l’angolo, con le ruote fisse verso nord. Un crescendo di strade isolate, circondate a tratti da boschi, a tratti da praterie, mi accompagna a Cape Sōya, vertice estremo dell’isola. Eccolo qui il mio “Capo Nord”, con tanto di monumento celebrativo sferzato dall’aria fredda proveniente dall’isola di Sachalin, situata di fronte a poco più di quaranta chilometri. Niente file per fotografarsi al tramonto, niente gruppetti in posa… per fortuna. Guardo ammirato solo la statua di Mamiya Rinzō, esploratore qui celebrato per aver mappato per primo l’isola di Sachalin. Sento di avere qualcosa in comune con lui.

Mi separano pochi chilometri da Wakkanai dove un veloce traghetto mi conduce all’isola Rishiri. Finalmente! Il vaso finalmente si frantuma del tutto, lungo i cinquanta chilometri di strada che percorrono il perimetro dell’isola, durante i quali i sensi si riacutizzano dal torpore sotto lo sguardo severo del vulcano che dà nome all’isola. Il freddo ancora una volta stimola, libera il mio animo e sono felice di lasciarne un pezzo anche qui, circondato dalla natura in un piccolo lembo di terra nel Mar del Giappone.
Alaska, less is more
Scontata? In realtà a banalizzare le destinazioni può essere solo l’approccio. Quindi please niente novelli Alex Supertramp alla ricerca del proprio magic bus. Non sono così ambizioso, nel freddo cerco solo di stare bene con me stesso.

Anchorage è il punto di partenza ideale, un luogo che appare fin da subito una sorta di frontiera verso la “grande natura”, inevitabile protagonista di un viaggio che cambierà per sempre, anche per i più duri di cuore, il modo di relazionarsi con essa. Prima di solcare l’asfalto ghiacciato, meglio sostare una manciata di giorni nella cittadina per un paio di comodi day trip. Portage Valley è l’ideale per entrare nel giusto spirito wild. Mentre salgo sull’imbarcazione che conduce all’omonimo ghiacciaio sento già la pelle tirare, lasciandomi alle spalle rughe e preoccupazioni.
Il Denali National Park, a nord della città, è un vero place to be. Per esplorare questa immensa area – mi spiace – niente veicoli personali, ma solo tour bus autorizzati. Non immaginate però una situazione da turisti fai-da-te: il parco ha un’estensione pari a quella della Puglia, ci si può anche accampare in una delle molteplici aree adibite a campeggio e c’è sufficiente spazio per poter vivere un’esperienza magicamente desolante. Poi chiaro, se avete rotto il porcellino per questo viaggio, potete volare alto con un soggiorno da sogno presso Camp Denali o Kantishna Roadhouse. Niente lusso eh! Vi portano con l’aereo all’interno del parco e vi lasciano in un lodge di legno in mezzo al meraviglioso niente, a guardare la vetta del più alto monte americano, il McKinley, oggi tornato a chiamarsi Denali (nome dato in origine dai Nativi).

Lo spirito già sollecitato da queste prime esperienze, ora freme. Il villaggio di Cantwell significa solo una cosa: Denali Highway, uno sterrato abbastanza compatto di lunghezza poco superiore ai duecento chilometri dove gli immensi spazi, invece di incutere timore e farmi sentire piccolo, amplificano i miei orizzonti, aprono la mente. Incosciente non fermarsi. I trail richiamano la mia attenzione così come il giro in barca sul Delta River o qualche minuto di contemplazione a MacLaren Summit… Inevitabile anche qui piantare la tenda, tirar fuori lo sgabello pieghevole, battere i denti e naufragare nel silenzio più vitale che abbia mai ascoltato.
L’obiettivo resta raggiungere Fairbanks, tappa fondamentale per il “grande salto”. Lì inizia la Dalton Highway, settecento chilometri verso il cuore del Circolo polare artico. Serve essere preparati perché i punti d’appoggio sono limitati e quelli per rifornirsi ancora di più. Va bene ricercare la solitudine, ma l’idea di rimanere a piedi non mi incuriosisce per niente. La strada disegna l’unico riferimento in una vastità di terra e natura dove lo sguardo si crogiola negli spazi che può abbracciare. A lato della strada corre parallela la Trans Alaska Pipeline, l’oleodotto che attraversa da nord a sud tutto lo Stato. In questo scenario mi appare come i resti di un’antica civiltà estinta.

Lungo la Dalton non servono punti di interesse (che pure non mancano) o “le dieci cose che non potete perdervi”. Sono solo, con la mia sensibilità e la disponibilità ad emozionarmi. Sentimentale? E se anche fosse? Sono qui per mettermi a nudo, mica per accontentare nessuno.
Superato il continental divide nei pressi dell’Atigun Pass, il freddo mi guida senza inibizioni. Da qui in avanti i fiumi sfoceranno nell’Oceano Artico e il permafrost diviene il mio migliore amico. Ormai la natura si fa lieve e i successivi chilometri sono la bellezza dell’essenziale. Uno stato di grazia che si interrompe con l’improvvisa apparizione di piccoli puntini bianchi all’orizzonte. Ecco Deadhorse, Prudhoe Bay, in pratica un working village per coloro che lavorano nei siti di estrazione del petrolio. Incredibile il contrasto: il nulla da una parte e una delle attività più impattanti che l’essere umano abbia mai sviluppato dall’altra. La moto deve fermarsi qui, ma sguardo e sensazioni sono andate ben oltre. Ad avere un po’ di cash, il tour nell’Oceano Artico lo farei anche. O magari una costosissima crociera tra i ghiacci. O ancora andrei a Barrow (conosciuta come Utqiagvik), nel punto più a nord del continente americano. Tra l’altro ci si arriva solo in aereo e – cosa ancor più assurda – c’è una squadra locale di football americano. Mi chiedo con chi altri giochino…
Ma forse non ho davvero bisogno di tutto questo. Con me ho qualcosa di ben più importante che non si esaurirà varcata la porta di casa e che men che meno voglio condividere su qualche feed social. Sono stato bene, togliendo via via tutto il superfluo, accompagnato e rianimato ancora una volta dal grande freddo vitale.