L’UOMO CHE HA SCONFITTO PIÙ PERICOLI IN TUTTA STORIA DELL’UMANITÀ

DOUGLAS – Isola di Man, mare d’Irlanda, ovvero una briciola di pane sulle
cartine, a metà tra Ulster e Gran Bretagna.

Lo vedi al paddock lavorare di frullino, per rifilare il cupolino in plexiglass della Honda Rc30 con cui corre da più di trent’anni, tenendo una bionda tra le labbra. Lui è David Madsen-Mygdal, alto, segaligno, abbronzato, e sua moglie Jill specifica subito: «Se davvero hai intenzione di iniziare il tuo pezzo così, specifica che per bionda intendi una sigaretta, e io sono mora, okay?». Right, iniziamo bene. «Per il resto, di bionde mio marito se ne fa quaranta al giorno, ma è l’aspetto meno pericoloso della sua esistenza, visto che da più di quarant’anni corre sul Mountain Circuit». Ovvero il tracciato più antico, pericoloso e prestigioso del mondo. Sessanta chilometri di stradale cittadino, tra pali, muri e marciapiedi a oltre duecento all’ora di media sul giro, sia che tu corra con le storiche o che affronti la sfida in sella a una Superbike. In questo caso con la media che si alza di almeno venti chilometri, scrivendo pagine di agonismo e velocità da leggenda.

Non guardate solo i soliti, i mostri sacri, perché all’Isola di Man le vere storie da urlo le raccontano gli strani, gli anonimi, gli sconosciuti ai più. Tipi come David. Il resto lo dicono le cifre: 265 piloti deceduti in 115 anni, con gli incidenti mortali sparsi random in qualsiasi parte del tracciato, che è restato tale e quale a un secolo fa, tra ostacoli fissi e zero vie di fuga.

David Madsen-Mygdal, figlio di Richard, pilota del TT negli Anni 50, ha 66 anni e corre il Tourist Trophy, l’evento più prestigioso dell’Isola di Man, e il Manx – ovvero le gare di fine estate per moto storiche e piloti amateur, che sta al TT come il Palio dell’Assunta sta a quello di Siena, da ben quarant’anni consecutivi. E vanta due record disumani ormai del tutto imbattibili. Il primo, quello degli arrivi: 148 bandiere a scacchi viste. Il secondo, quello delle partecipazioni, appena ottenuto nell’edizione 2022 del Manx Grand Prix, con 201 partenze complessive.

Cifre incredibili, folli, quasi inapprocciabili. In fondo qualsiasi pilota nella storia delle corse vede fin solo un unico gettone di presenza sull’Isola di Man come un traguardo sudato e improbabile, oltre che rischiosissimo. Una roba da raccontare ai nipoti le sere d’inverno davanti al fuoco, tale e quale a una missione di guerra con la Legione Straniera; figuriamoci duecento e più shot maligni, baciando la morte e usando la lingua: a french kiss to the death, come dicono da queste parti. La verità è che nessuno ha rischiato più di David qui. E quindi, forse, in tutti i luoghi e in tutta la storia del Pianeta Terra.

Anni fa ha perso un figlio, Mark, morto in gara cittadina, a Billown, nel sud dell’Isola e senza colpa alcuna, perché una moto di un concorrente caduto un attimo prima gli è rimbalzata contro. Ma papà David non si è arreso e con lui mamma Jill, decidendo di andare avanti. Sì. Di riprendere la sua rotta e correre all’infinito, con in testa e nell’anima una specie di navigare necesse est, stile Ulisse dantesco.

«La sorte devi accettarla – commenta lui, aspirando dall’ennesima bionda-, qui come nella vita: tanto decide il destino. Non sono nato sull’Isola di Man, ma qui sono stato come attirato, risucchiato. Fin dalla culla seguivo mio padre che veniva dall’Inghilterra per correre in moto sull’Isola e alla fine, passati i venticinque anni, ho deciso di fare una scelta di vita e di stabilirmi proprio qui, aprendo un’officina. E, parallelamente, correndo da pilota dilettante ma professionale, divenendo uno specialista del Mountain. Lo so, vuoi sapere quante volte sono caduto in vita mia e perché sono vivo. Ti rispondo che sul Mountain sono caduto una volta sola, pochi anni fa, mentre partecipavo a una sessione di prove per moto elettriche. La ruota posteriore si è bloccata senza preavviso e mi sono schiantato scivolando dritto, sulla sede d’asfalto, senza toccare nessun ostacolo fisso. Non era per me, quel giorno. Il destino, appunto. Morire con la moto del futuro nel luogo che celebra il passato sarebbe stata una gran fregatura, non trovi?».

Lo guardo come se parlasse un saggio, ma anche un mezzo matto e lui mi legge nel pensiero: «No, non siamo pazzi a correre qui e io neppure. Al contrario, se sei scemo sull’Isola di Man campi pochissimo. Devi essere calcolatore, scientifico, ricamatore e satellitare di te stesso, perché qui se fai un lievissimo errorino, sei morto. E quindi mai farne. Per il resto il tracciato è una continua sfida con te stesso. Ogni anno le moto sono più veloci, mentre io invecchio e calo di un po’: ne esce fuori un equilibrio instabile di performance, che mi illude ogni volta di potermi lievemente migliorare, sul giro. Ormai passo la vita a ritoccare infinitesimamente i miei tempi, a non arrendermi, a battere me stesso».

Lo guardo e gli dico che la trovo una meravigliosa lezione di vita. Vorrei, potremmo, dovremmo tutti provare a fare lo stesso, nel nostro piccolo, nell’esistenza di tutti i giorni. Lui sorride poco convinto e guarda oltre. Oltre duecento gare sull’Isola di Man. Che senso ha? «Per me nessuno, conta solo per te che sei giornalista e ami i numeri tondi e conta per la mia famiglia. Io qui vorrei correrne 999 di gare e sarei contento lo stesso, anzi, assai di più. E adesso scusami, perché devo finire di
rifilare il cupolino».

Va be’, dai, vado avanti da solo, a memoria. È di David Madsen-Mygdal la più bella battuta in oltre un secolo di corse al TT e l’ha fatta dopo aver vinto il Manx nella classe 750 al trentesimo tentativo, quando gli hanno chiesto cosa stesse provando, finalmente sul gradino più alto del podio. Sentitelo: “Be’ nulla. Trent’anni fa al mio primo giro sul Mountain mi sono detto: mi piace, qui vinco sicuro, è solo questione di tempo. Visto?”. Come non amarti, David Madsen-Mygdal?


Riprende la parola la moglie Jill: «Correre sul Mountain Circuit dà una scarica d’adrenalina continua, una specie d’elettrizzante siero dell’euforia, di cui alcuni, una volta provato, non sanno fare più a meno. Mio marito, probabilmente, è solo il portabandiera tra quelli che hanno sviluppato un’appassionata forma di goduriosa dipendenza. I Mountain addicted». La guardo, cerco di non sembrare volgare, mi do un tono e le dico: «Jill, un giorno Nick Jefferies, vincitore di un TT nel 1993, mi disse che correre qui è la cosa più eccitante che un uomo può fare da vestito». E lei: «Me lo ha detto anche mio marito, sai. Per fortuna non sono gelosa».