Ci sono rockstar senza i capelli lunghi, con la pelle libera da tatuaggi oltraggiosi e che ai pipistrelli preferiscono i turtléin in brodo. Qualcuna, poi, non c’entra nemmeno con la musica, ma si guadagna il titolo in altri campi, passando lo stesso alla storia.

Personaggi che nel loro ambito hanno un seguito fortissimo, proprio come Valentino Balboni. Ferrarese di Casumaro, deve la sua notorietà a Sant’Agata Bolognese, perché il suo è il secondo nome che viene più spesso associato al marchio Lamborghini. Valentino è infatti il collaudatore sperimentale che ha lasciato il segno su molti modelli della storia del brand, iniziando sotto lo sguardo burbero di Ferruccio Lamborghini e appendendo la tuta al chiodo durante il regno di mamma Volkswagen.

Una sensibilità unica al volante, senza mai perdere il piglio da emiliano buono come il pane che non disdegna i piaceri della vita.

Balboni, una vita per le Lambo. A vederlo passeggiare tra le auto di Concorso Italiano, di Pebble Beach o di un qualsiasi evento Lamborghini, Valentino potrebbe sembrare un normale malato di motori che ha passato da un po’ i settant’anni, con la polo d’ordinanza e con l’occhialone da sole che da quel tocco “giovanile”. Ed è così che ti inganna il Balbo, facendoti credere di essere soltanto uno che vive di ricordi e sbircia dentro ai cofani delle Lamborghini per pura curiosità. Una curiosità che in realtà è lucida ossessione, quella che ha fatto capolino quando, giovanissimo, ha varcato i cancelli del costruttore di Sant’Agata per un impiego.

Fast-forward. Più di cinquant’anni dopo è un simbolo vivente della Casa del Toro, secondo in celebrità soltanto al visionario fondatore Ferruccio. Cosa lo rende così speciale in un contesto dove i fuoriclasse non mancano? Essere stato il più grande collaudatore Lamborghini di tutti i tempi, sia per le “comuni” vetture di serie sia per i modelli sperimentali, dando di fatto il via libera a tutte le auto uscite dai cancelli della fabbrica tra il 1975 e il 2008. Un caso in cui la fine della storia non è che l’inizio, perché oggi Valentino gode di una popolarità enorme tra gli appassionati del marchio e in generale tra i petrolhead. A suo modo, senza volerla sfruttare.

Perché, se la passione è grande, l’ego è piccino-piccino. Balboni, che avrebbe motivi per farsi dare del voi da tanti nel mondo dei motori, è la persona più alla mano che puoi trovare ad un evento, sempre pronto per una parola o per uno scatto e sempre col sorriso sulle labbra.

Giovanissimo alla corte di Ferruccio. Mentre in Italia iniziavano a soffiare i venti della protesta sociale, il pragmatico meccanico-apprendista Balboni nel 1968 si presenta alla fabbrica Lamborghini – aperta cinque anni prima – per un impiego. Al patron Ferruccio il ragazzo piace, a tal punto che ad un certo punto decide di metterlo a testare le vetture appena prodotte.

Una gavetta sui generis, che però permette al giovane Valentino di affiancarsi al collaudatore di punta della casa di quegli anni: Bob Wallace, un tester fortemente metodico e competente che insegna al nostro come interpretare le sensazioni che la vettura trasmette al fondoschiena così come la disciplina, nelle prove al volante sulle strade dell’Emilia e durante le sessioni di feedback con gli ingegneri. Una formazione di qualità per un mestiere che fino ad allora veniva fatto a sentimento, senza particolare preparazione se non quella – empirica – del motorsport.

Le nubi societarie però sono in agguato e la situazione burrascosa della casa emiliana negli anni Settanta porta all’addio di Wallace; ed è così che, mentre molte colonne portanti dell’azienda fanno i bagagli (compreso il patron Ferruccio, costretto a uscire di scena), Valentino resta attaccato alla maglia e diventa il primo collaudatore di Automobili Lamborghini. Un ruolo che terrà stretto per tutta la vita professionale e che gli darà tante soddisfazioni.

Tortellini e carburatori Weber. Gli anni che seguono per l’azienda sono come le montagne russe, caratterizzati da cambi di proprietà non sempre limpidi, il baratro del fallimento mai abbastanza lontano e qualche commessa-salvagente decisamente naïve (difficile immaginarsi il Balbo che collauda una Fiat 127 Rustica, vero? E invece è successo anche quello).

Sul fronte modelli arrivano invece novità interessanti, come la Countach (che sarà la vera salvatrice della Casa), la LM002 (snobbata ai suoi tempi, ma di fatto il primo luxury SUV della storia) e la Jalpa, fino ad arrivare a Diablo, Murcielago e Gallardo. Valentino le battezza tutte, dai primi muletti fino agli esemplari da consegnare i clienti. Un lavoro che oggi sarebbe tutto simulazioni al computer e test a porte chiuse in qualche proving ground; nella Sant’Agata del Balboni i metodi erano altri. Le auto uscivano per le strade e le autostrade dell’Emilia-Romagna senza paranoie e senza camuffamenti, tanto non c’erano gli smartphone a spiare le novità. Tutti insieme sugli stessi nastri d’asfalto, e così poteva capitare di vedere un prototipo Lamborghini e uno Ferrari davanti a una trattoria, con Valentino che se la rideva di fronte ad un piatto di passatelli a tavola col suo alter ego di Maranello, Dario Benuzzi.

Altri tempi, altri uomini, altre macchine. Una stagione in cui collaudatori e ingegneri potevano anche prendersi a male parole quando una soluzione per qualcuno non funzionava. Qualche volta vinceva chi stava al volante, altre volte chi era dietro al tecnigrafo. Come per le innovative sospensioni della Diablo, che al Balboni non facevano impazzire, ma che alla fine hanno contribuito a dare alla macchina il carattere che i clienti cercavano.

Legame indissolubile con Sant’Agata. E non stupisce che un personaggio con così tante storie da raccontare e così intrecciato con l’epopea di uno dei marchi di supercar più amati dal pubblico sia diventato una figura di spicco dell’universo Lamborghini anche quando il rapporto con l’azienda, quello ufficiale, si è concluso.

Valentino non andrà mai in pensione dal suo personaggio, ma anche lui nel 2008 ha dovuto lasciare il volante per sopraggiunti limiti di età. Così perlomeno la pensava l’INPS, dopo quarant’anni di contributi ininterrotti. In una situazione del genere l’attaccamento alla maglia viene di solito premiato con un bell’orologio, il brindisi in sala mensa e una sermoncino di cinque minuti dell’amministratore delegato su quanto è grata la ditta per il tanto lavoro di questi anni insieme. Ma il comandante in capo dell’epoca – lo stesso Stephan Winkelmann che dal 2020 ha di nuovo in mano le redini di Lamborghini – capisce che il passaggio da collaudatore a leggenda è vicino e asseconda la causa di beatificazione, omaggiando Balboni con una versione celebrativa della best seller dell’epoca, la Gallardo LP 550-2 Valentino Balboni. Una limited edition (250 esemplari) più wild e rigorosamente a trazione posteriore, che va rapidamente sold-out.

Da lì inizia la seconda vita di Valentino. Quella fatta di eventi a cui partecipare come ospite, delle foto con i fan, delle alette parasole autografate con l’UniPosca e di eleganti signore (e relativi mariti) che lo vogliono a tutti costi al tavolo durante una cena di gala. Perché il Balbo è ambassador nel verso senso del termine – non un’etichetta posticcia con cui riempire gli slogan del marketing – di un mondo fatto di V12 demoniaci e scocche dai colori scintillanti che prendono il nome dalle razze dei tori.

Oggi? Tutto diverso. Se quando ha iniziato a lavorare lui le macchine si giudicavano con le braccia, i piedi e il sedere (e soprattutto andavano spiegate a chi le comprava), oggi il mondo di Valentino è cambiato. Basti pensare che nessun componente della Miura è mai stato testato in pista prima del debutto sul mercato, così come è stata la Diablo la prima supercar di Sant’Agata a fare qualche timida sessione di test sull’anello di Nardò: nel costruire le macchine oggi è tutto basato su parametri misurabili e test senza emozioni.

E nonostante le tante coccole dettate dal marketing non è neppure più lo stesso il rapporto delle case con chi quelle vetture – stupende e spesso inarrivabili – le guiderà. Perché Balboni le auto le consegnava pure, e quando un cliente si presentava a Sant’Agata per ritirare una Countach fiammante, era lui a farlo sedere al posto del passeggero e a portarselo fino a Nonantola per far vedere come si guida una Lambo.

Al ritorno poi ci si scambiava al posto di guida, per mettere in pratica la lezione. Un rapporto tra tester e cliente che continuava quando c’era da saltare su un aereo e andare a capire un problema di handling o di performance che veniva lamentato da un acquirente o da un concessionario in giro per il mondo: in Lamborghini li prendevano in giro e li chiamavano flying doctor.

Un mondo diverso, fatto di selvaggi pieni di storie affascinanti, che sapevano guidare e stare al mondo e che batteranno sempre i professoroni in camice bianco. Quelli che prima di schiacciare l’acceleratore devono accendere il pc.