L’ampia mansarda in cui mi trovo, un po’ tana, un po’ ufficio e un po’ confessionale, è inondata dall’abbacinante luce dei pomeriggi d’estate. Sto seduto composto alla scrivania, letteralmente incollato alla mia prestigiosa sedia ergonomica, alla faccia del “tessuto traspirante” poco modestamente strillato nelle sue caratteristiche tecniche. Ipnotizzato dal sibilo del ventilatore, cerco consolazione tentando di captare il canto delle sirene di pensieri rinfrescanti.

Quello spicchio di immenso cielo azzurro che riesco ad intravedere dai velux della stanza sblocca mente e immaginazione più di qualsiasi colorato francobollo lisergico. In questo mondo e in questi tempi sempre più bipolari, conflittuali e contrastanti, credo siano rimasti ben pochi principi, concetti o idee unificanti e accomunanti. Serve raschiare un po’ il fondo del barile, ma qualcosa si trova ancora. E non si può non pensare al concetto generico di vacanza.

Cosa c’è di più pop, di più universalmente condiviso e agognato del lasciarsi alle spalle la quotidianità e spendere dei giorni off, non importa dove o a fare cosa, semplicemente assecondando una sorta di innato desiderio di sfuggire alla ridondante quotidianità? Cosa c’è di più ampiamente apprezzato del dedicarsi a se stessi, dare sfogo alle proprie frustrazioni e liberarsi apparentemente di quelle catene che imprigionano al servizio di un mondo consumistico e votato allo sfruttamento dei lavoratori… no no, fermi… questa deriva pseudo-marxista da bar meriterebbe di essere fatta ad alta voce parlando dentro la grata del ventilatore. Provare per credere. Meglio servirmi qualcosa di fresco e riprendere.

Mentre sgranocchio i cubetti di ghiaccio del mio tè alla pesca corretto, ripenso alle frasi filosofiche che circolano tra i vari “buongiornissimi” da boomer in cerca di affetto e attenzioni, tipo “Fai il lavoro che ami e ti sembrerà di non aver lavorato un giorno”. Certo, con spinte motivazionali di tale spessore e profondità vedo già eserciti di donne e uomini entrare nel loro posto di lavoro sulle note di un musical… Non scherziamo, il lavoro non sarà mai “vacanza”, resta sempre impegno, dedizione, sacrificio, delusione, rabbia e per alcuni anche soddisfazione. Tutte sensazioni che agiscono nelle profondità della nostra sfera emotiva, che vivono di unicità e soggettività e richiedono un maggiore sforzo per essere comprese e condivise.

Il pop non ha niente a che fare con tutto questo.

È immediato, a tratti superficiale, capace di innescare sensazioni intense, ma destinate a bruciare velocemente come un cerino al vento. E quindi ripeto… Cosa c’è di più pop di una holiday in questi ruggenti anni Venti?

Già, fare le valigie e partire sembra essere il mantra di tutti, fonte di gioia, obiettivo di vita ed evasione da ogni cosa, se stessi compresi. E invece finisce sempre che ci si ritrova addosso tutto ciò si pensava di aver lasciato fuori dalla valigia: insicurezze, paure, ma anche un puerile bisogno di attenzioni, bilanciato da un pizzico di vanità e un cospicuo desiderio di generare una qualche forma d’invidia negli altri, magari anche solo per sentirsi all’altezza. Ma al di là di questo ribaltamento di valori, per i quali servirebbe un’altra storia (tutt’altro che pop), ciò che resta è un’universale condivisione del piacere della vacanza.

Benché circondati da insidie, nel viaggio tutto può accadere, folgoranti illuminazioni incluse e alla peggio si torna a casa esattamente come si è partiti. Niente di grave ma… Potrebbe anche andare meglio. Come nei migliori dischi pop di ogni decade, serve qualche elemento underground per donare spessore e personalità. La playlist qui sotto spiega meglio cosa intendo.

Serve qualcosa che nasca dalle personali profondità, dalla propria palette di sfumature, che definisca i contorni unici dell’esperienza. E come spesso accade, è tutto in mano nostra. Nessuno ci vorrebbe e nemmeno potrebbe mai aiutarci a fare questo. Dipende da noi, dal volerci sporcare mani e piedi, liberandoci dalle solite, perenni sovrastrutture che ci portano troppo spesso a guardarci allo specchio e troppo poco a scrutare dentro di noi.

Facciamo una scelta, qualunque, che sia esplorare gli angoli più remoti del pianeta, scalare montagne, solcare i mari o semplicemente pigroneggiare in qualche assolata località di vacanza. Ma che al suo interno ci sia davvero qualcosa di noi, ci sia il nostro essere e benessere, i nostri bisogni, le esigenze di uno specifico momento o periodo. Ecco, è questo quello che al massimo andrebbe condiviso con gli altri. Scevri dalla hit parade dell’esibizionismo, mostriamo al bisogno l’essenza di ciò che ci sta facendo bene. Condividiamola senza timori e senza strategie ad amici cari e vuoti nickname, risparmiandoci insipide cronistorie filtrate che subdolamente alimentano motori altamente inquinanti. Ciò che vediamo e sperimentiamo, che sia straordinario o eccezionalmente ordinario, è meglio rimanga nostro, se davvero l’abbiamo scelto nel profondo, secondo la nostra sensibilità, i veri desideri, l’intima spinta propulsiva.

Anche io, correndo i medesimi rischi, vivo numerose conflittualità: sono attratto dallo spirito pop della vacanza, ma sono troppo “me stesso” per cederne alle lusinghe. Amo partire ma devono essere momenti primariamente “miei”, non di altri. Cerco di vivere belle esperienze, non mi sento in dovere di comunicarle sempre, ma se lo faccio è perché voglio davvero condividerle fino in fondo. Cerco di coltivare la mia entità all’interno di un limbo che ho ironicamente soprannominato uncomfortably pop. Scomodamente pop. Il tè corretto mi fa bene.

Ma quindi, alla luce di tutto questo, cosa ho in mente di fare? Dove potrei trovare un po’ di pace in questo caos di considerazioni? Quali potrebbero essere i luoghi capaci di sintetizzare tutte le mie anime, pop e meno pop? Non è semplice perché non si tratta banalmente di aprire quel cassetto ricco dei viaggi da sogno che ho in mente per il futuro. Nella mia vacanza paradossalmente c’è meno pianificazione, è più istintiva. Già, proprio come il fascino di ciò che è pop, che ti agguanta languido per sedurti velocemente, giocandosi tutte le carte sull’impatto, sul qui e ora, sulle sensazioni del momento.

E adesso mi vedrei bene con la mia camicia marchiata L.L. Bean dal tradizionale motivo a scacchi mentre cammino il più lentamente possibile sulla sabbia fine di Downhill Beach, contea di LondonDerry, Irlanda del Nord. Il nome del luogo già ispira delle sensazioni positive, ma è quando si percorrono gli oltre dieci chilometri della sua estensione totale che accade la magia. Nessuna IA poteva disegnare un così perfetto incastro di scogliere e dune sabbiose, abbinandone i colori in una palette difficile anche solo da immaginare. Qui, contro ogni cliché, è luogo di surf. Sì, avete capito bene. In questo posto plasmato dall’arte ci si getta tra le onde atlantiche elevandosi ad una dimensione superiore.

Poche macchine parcheggiate direttamente sul litorale da cui spuntano tavole pronte a sfidare un mare che non fa sconti e ti obbliga a mettere in gioco tanto, in cambio di un’irrinunciabile impennata dello spirito. In questo contesto trascorrerei ore a guardarmi intorno, percependo il più possibile ogni stimolo: dall’adrenalina più frenetica, alla stoica staticità della natura che sa essere meravigliosa quando è immutabile. Ne esco con la mente stremata, ma l’io appagato. La giornata la chiuderei poco lontano, con una birra solitaria nella brulicante Derry, una di quelle città che è capace di esercitare su di me una fortissima empatia, prima di varcare il confine con l’Irlanda e ritirarmi per una notte nel Fanad Head Lighthouse, in uno scenario primordiale, dove un cuore sereno può scivolare senza turbamento nel fragore del frangersi delle onde.

L’ambizione di godermi una vacanza creando al contempo una perfetta tensione tra forze molto diverse (e a tratti opposte) fra loro mi proietterebbe nel cuore di un fiabesco fiordo norvegese, anonimo nel suo essere “uno fra tanti”, eccezionale nella sua unicità. Nella minuscola Breivika, nei pressi di Harstad, sono seduto comodamente su un piccolo paddle surf (più conosciuto come SUP) poco lontano dalla costa. È un outdoor activity che sento eccezionalmente mia: perfetta da vivere da soli, ma al tempo stesso condivisibile, capace di trasmettere tanto dinamismo quanto surreale staticità. L’acqua placida riflette una golden hour che non finirà tanto facilmente, infuocando il cielo per ore mentre l’orologio segna qualche minuto dopo la mezzanotte. In una catarsi che dà solo l’illusione di aver fermato il tempo, spezzo gli equilibri con qualche colpo di remi che mi fa scivolare di qualche metro. Non è questa la sintesi di tante vite come la mia? Ed è così inaccettabile come tanti maniaci dell’affanno vorrebbero farmi credere? Questi pensieri si affievoliscono rispedendo la mente in vacanza, mentre assaggio un pescato del giorno da urlo nelle eleganti salette di Bark.

A queste suggestioni fatte di isolamento ed equilibrio emotivo, si affianca l’anima del vacanziero curioso che non disdegna destinazioni conosciute e popolate, a patto di provare verso di esse un rinnovato interesse, una spinta propulsiva, un desiderio recondito. Mi trovo lungo un’altra spiaggia sabbiosa, ampia ed estesa fino all’orizzonte. Qui l’Atlantico prova ad intervalli regolari a conquistarne le sponde venendo ogni volta respinto e costretto a ripiegare.

Per fortuna, l’esito fu diverso per quelle migliaia di soldati che nel giugno del 44 giunsero qui scoprendo che l’inferno poteva avere anche un panorama affascinante. La Normandia non è solo il ricordo dello sbarco degli Alleati durante la Seconda guerra mondiale, soprattutto oggi che si è rilanciata come eccellente destinazione turistica, ma una tale memoria non può e non deve lasciare insensibili. Ristabilire un punto di contatto e una sana dose di empatia con ciò che è accaduto mi attrae tanto da imbracciare una divertentissima fat-bike, pedalando silenziosamente a testa alta e ascoltando i racconti della guida.

È tutto un guardarsi attorno mentre il pensiero spazia tra l’incanto del luogo e le sensazioni contrastanti trasmesse dal suo passato. E poi c’è quel punto dove la spiaggia lascia spazio alle colline verdi che la dominano, presidiate da piccole blockhaus in cemento dove adesso osserviamo foto, documenti e mappe dell’epoca. Sento i fremiti dell’empatia vibrare mentre penso cosa significasse giungere qui, quel giorno.

Umcomfotably pop dicevo. Una vacanza creata e disegnata a mia immagine e somiglianza, non per sentirmi divino protagonista di fronte a tutti ma, anzi, per confrontarmi con ciò che sono in ogni mio contrasto, nei luoghi che ho ritenuto affini al mio spirito e alle mie esigenze momentanee. Domani chissà, potrei vedermi bene su qualche lido ordinato a leggere di calciomercato o su una bella nave da crociera, pronto per l’ennesimo cocktail a bordo piscina.

Ripenso a tutto questo davanti al glorioso piatto di ostriche de La Maison Bleue, a pochi passi da Juno Beach. Difficile schiodarsi da quella terrazzina esterna con il sapore del mare in bocca, esaltato da sapienti bollicine.

Ne condivido il giusto, il resto me lo tengo per me.