Se penso che la parola “esperienza” spesso viene associata ad una cena in un ristorante stellato, mi sento come se venissi da un altro mondo. Il motivo? Per me l’esperienza rappresenta qualcosa di più, qualcosa che ti arricchisce e che, anche se in minima parte, riesce a cambiarti, a migliorarti la vita. Naturalmente non ho nulla contro gli chef stellati anzi, se non fosse per le mini-porzioni… A chi non piace una cena raffinata in un locale elegante? Il problema è che, uscito da quella porta, a parte il ricordo dei piatti dai nomi complicatissimi con decine di ingredienti ricercati, non mi sento mai realmente appagato.
Oggi è indubbio che esistano tante tipologie di vacanza: crociere, villaggi, alberghi, formule last minute e low cost. Tutte offrono una buona varietà di scelta a quasi tutti i palati, più o meno fini che siano. Manca però, in queste opzioni, l’ingrediente fondamentale: l’avventura. La vera esperienza per me è il viaggio. E il viaggio deve essere avventuroso. Esattamente come quello che mi ha portato su una Panda da Milano alla Mongolia.
È il 2010 quando due cari amici ed io, allora ventiseienni e un po’ fuori di testa, decidiamo di partecipare al “Mongol Charity Rally”, la corsa più pazza del mondo, un rally non competitivo che ha come obbiettivo di arrivare ad Ulaanbaatar a bordo di auto o moto a propria scelta. Probabilmente vi starete chiedendo che senso abbia parlare di un viaggio fatto 12 anni fa.

La risposta è che dopo 2 anni di pandemia, di lockdown, una guerra in corso e il mondo che sembra andare più veloce di una biglia lanciata da un grattacielo, zigzagando tra elettrificazione, sostenibilità vera o presunta e politically correct q.b., ha senso ricordare che i momenti speciali valgono e vanno ricercati. Il Mongol Rally non è per tutti. Non è facile da affrontare e da vivere, ma saprà arricchirvi sotto tanti aspetti. La mia speranza è che qualcuno di voi, dopo aver letto questa storia, si iscriva alla prossima edizione che sarà quella del 2023. Dopo lo stop forzato, infatti, l’anno prossimo ritorna il viaggio, l’esperienza, l’avventura più incredibile che si possa vivere on the road. Ecco com’è andata la mia…
Fatta l’iscrizione, che consiste in una donazione a scopo benefico, con il massimo della convinzione possibile, ci siamo resi conto immediatamente che preparare auto ed equipaggio per un viaggio del genere non sarebbe stato esattamente come prenotare una vacanza a Ibiza… Come si affrontano 15mila chilometri a bordo di una Panda 1.1 Fire versione Hobby? Cosa vuol dire dormire nel deserto del Gobi, attraversare Kazakistan, Uzbekistan, Russia, guadare, superare dune, orientarsi con le cartine e affrontare guasti, imprevisti, caldo e cibo improbabile?
Ok, una cosa per volta: partiamo dalla base. Quando ci si trova a guidare in luoghi in cui difficilmente arriva il soccorso ACI, è fondamentale avere un mezzo pienamente funzionante, che non faccia scherzi e sia facilmente riparabile. Abbiamo subito iniziato a progettare modifiche mirate a rendere l’auto abile e arruolata per attraversare deserti e strade sterrate. L’obbiettivo? Creare una Panda-Defender-cargo. Rialzata, dunque, con piastra paracolpi per la coppa dell’olio, 6 fari supplementari e cassone fatto su misura per il grande carico di pezzi di ricambio da portare…
E poi gli interni, rigorosamente senza aria condizionata ma con la bussola, le prese d’aria supplementari per la “velocità”, la radio, le gomme tassellate, lo snorkel, le taniche di benzina supplementari e una colorazione custom realizzata con le nostre mani. L’auto che ancora oggi rimane la più bella che abbia mai avuto l’onore di guidare era davvero un piccolo capolavoro pronto a tutto.
Fase due: preparare la rotta da seguire per raggiungere Ulaanbaatar. Impensabile, infatti, improvvisare 15mila chilometri di potenziali imprevisti. Il Rally non prevede nessun percorso prestabilito e nessuna assistenza sulla strada, esclusi i 4 punti di raccolta-auto in Mongolia. In questi luoghi dispersi nel nulla è possibile effettuare riparazioni basiche grazie a meccanici decisamente old-school, ma degni della Formula 1, in grado di porre rimedio quasi a ogni guasto con gli scarsissimi mezzi a disposizione. Gli strumenti più utilizzati? Martello, saldatrice e qualche auto da cannibalizzare.


Fase tre: passare qualche serata a litigare sui paesi visitare e richiedere tutti i visti per entrarci, passaggio che ha richiesto lavoro meticoloso e pazienza certosina. I mesi che hanno preceduto la partenza sono stati fondamentali perché con un mezzo ben preparato e una rotta chiara e tracciata si pongono le basi per un’avventura con un inizio e, soprattutto, un finale felice.
Una volta partiti dalla Triennale di Milano assieme ad altri 20 equipaggi, abbiamo iniziato finalmente a macinare chilometri su chilometri, quotidianamente. Il viaggio fino all’Ucraina, oggi devastata dalla guerra, non ha presentato particolari intoppi essendo ancora in una parte di mondo civilizzato. Strade buone e navigatore (uno dei primi Tom Tom) funzionante.
È con l’ingresso in Russia che si inizia a fare sul serio. Strade sempre peggiori e indicazioni sempre più scarse fanno penare non poco, senza contare il caldo (oltre al profumo di mughetto di tre 26enni sudati fradici dalla mattina alla sera) e la scarsa abilità dei Russi al volante. In un viaggio del genere il supporto analogico è fondamentale: il cellulare (ai tempi gli smartphone non esistevano ancora, ma la situazione non è migliorata granché nemmeno oggi) non prendono la linea per la maggior parte del tempo ed è fondamentale avere tutte le cartine stradali del mondo. Con il navigatore senza segnale, e poco più di un Nokia 3210 in tasca, non avremmo mai raggiunto la nostra meta senza quei provvidenziali pezzi di carta salvavita.
Dormire nel mezzo del deserto in tenda sotto un cielo da cartolina, superare guadi che in realtà sono fiumi sotto mentite spoglie, mangiare cibi di cui è impossibile identificare la natura ed orientarsi in Paesi dove non esistono cartelli stradali e dove nessuno ti capisce… Ecco, il vero Mongol Rally è questo. Sono vividi i ricordi delle famiglie kazake e mongole che ci hanno ospitato nelle loro case. E quelli dei mercati, nei quali cercavamo più o meno invano di capire quale cibo misterioso fosse leggermente più commestibile degli altri. Senza parlare dell’esperienza nell’ospedale locale per un controllo: come andare all’Ikea con la fidanzata senza litigarci. Praticamente impossibile.
Svegliarsi nel deserto e intravedere dalla tenda le ombre dei dromedari che ti circondano è stata, poi, la sveglia più terrificante di sempre: praticamente una scena di Jurassic Park, ma molto, molto live. Di tutti i Paesi attraversati, la Mongolia è quello che regala i panorami più incredibili, con il deserto incastonato tra le montagne innevate e le distese di nulla sempre davanti agli occhi.
Il premio per la zona più difficile da superare, invece, va al Deserto del Gobi, che ci ha dato parecchio filo da torcere: pochissimi chilometri al giorno, niente strade, ma solo tanta sabbia e un’attenzione costante a dove metti le ruote per non rischiare di rimanere definitivamente bloccati. Ricordo ancora quando dopo 10 giorni di Gobi (e un solo bagno in un fiume gelido) abbiamo scorto in lontananza Ulaanbaatar. L’emozione più grande mai provata fino a quel giorno, dopo un mese di viaggio. Eravamo riusciti nell’impresa.

Ogni paese toccato ci ha lasciato qualcosa di indimenticabile, soprattutto perché la vita on the road permette di apprezzare a pieno, oltre al brivido, le persone che abitano questi luoghi sperduti. Germania, Repubblica Ceca, Polonia, Ucraina, Kazakistan, Uzbekistan, Russia e Mongolia, vissute come lo abbiamo fatto noi, sono diventati luoghi speciali. L’esperienza più stellata di sempre, altro che una cena al ristorante!