L’inverno è sempre stato al quarto posto tra le mie stagioni preferite. Forse per il freddo, forse per le poche ore di luce, sicuramente perché in moto ci si va meno rispetto al resto dell’anno. Ciò che è certo è che uno dei migliori rimedi a queste giornate cristallizzate e un po’ molli è fantasticare. E gennaio è il mese della Dakar. Il mese perfetto, insomma, per sognare l’avventura, il sole, il caldo, i motori e la sabbia dei deserti africani. Personalmente, sono cresciuto con la prima versione (l’originale insomma, chissà, forse quella vera?): la Parigi-Dakar, che ogni anno lasciava l’Europa per arrivare in nord Africa, appunto, nei territori abitati dalle tribù berbere. Forse è per questo che anche oggi, ad ogni Dakar, questi luoghi e le loro tradizioni mi risuonano in automatico nonostante non ci si corra più da anni.

Di questa affascinante e misteriosa cultura uno degli aspetti per me più interessanti sono i loro poco noti tatuaggi tradizionali.


Nella cultura degli uomini liberi tra deserto e città (questo il significato della parola “berbero”) il tatuaggio è destinato prevalentemente alle donne e dalle donne è eseguito. Per gli uomini le forme erano più piccole e discrete: il tatuaggio nel palmo della mano, ad esempio, aveva la funzione di aumentare la destrezza, mentre in altre parti del corpo aveva mera funzione rafforzativa del senso di appartenenza.

Purtroppo oggi la sopravvivenza di questa antica tradizione è messa a rischio dalla diffusione dell’Islam, i cui precetti non contemplano il tatuaggio come forma d’espressione. Proprio per questo per trovare degli esempi di questa interessantissima pratica bisogna cercare le più anziane tra le donne Amazigh (una delle tribù dove la pratica del tatuaggio è maggiormente presente): le linee e i punti decorano i piedi, le mani, gli avambracci, il collo e il mento.

Le motivazioni, come spesso accade per i tatuaggi più antichi, sono sia decorative che magiche. Le ragazzine vengono tatuate fin dalla giovanissima età: si inizia da un disegno propiziatorio sul mento, il Siyala, legato alla fertilità per poi spostarsi verso le estremità del corpo allo scopo di fornire protezione e identità. Si tratta di un rito di passaggio all’età adulta che dona nuovo fascino alla futura donna, contribuendo a prepararla al matrimonio.

Molti simboli del tatuaggio hanno relazioni con la vegetazione e, nel caso del Siyala, il più comune è quello della palma, disegnato come una linea retta circondata da puntini che rappresentano i semi. È considerato uno dei simboli più belli che una donna possa avere sul viso ed è correlato alla dea cartaginese Tanit, dea lunare della fertilità e della guerra per il popolo Amazigh.

È una tradizione che cambia sfumature a seconda del paese in cui viene analizzata: in Algeria, ad esempio, i tatuaggi facciali possono simboleggiare eventi della vita e hanno lo scopo di allontanare gli spiriti maligni (Reuters).  

I disegni caratteristici del tatuaggio tradizionale berbero sono molto intricati anche se sono caratterizzati da linee brevi e motivi ripetitivi. Per darvi un’idea, sono gli stessi che si trovano tra le decorazioni di tappeti ed altri oggetti di uso comune, come le tajine.

È interessante il modo in cui questi tatuaggi vengono eseguiti, molto simile ad altre tecniche tribali sviluppatesi a migliaia di chilometri di distanza: il disegno viene tracciato sulla pelle con uno bastoncino, utilizzando un inchiostro che di solito si ottiene mescolando nerofumo con la saliva della tatuatrice e acqua. A questo punto con uno strumento appuntito (un ago o una scheggia d’osso fissati ad un bastoncino) si eseguono sulla pelle tanti forellini ravvicinati e, una volta completata l’operazione, viene ripetuta per ottenere un migliore e più solido effetto. Insomma, oggi la chiameremmo “hand-poke”. Nelle cronache più antiche questo viene descritto come un procedimento non doloroso e sicuro da infezioni: cose difficili da credere oggi, abituati come si è a creme anestetiche e antibiotiche. 

Una doverosa citazione, secondo me, la merita la signora Loretta Leu che nel 2017 pubblicò un interessantissimo volume scritto a quattro mani con il compianto Felix Leu. Berber Tattooing in Morocco’s Middle Atlas, questo il titolo purtroppo non così semplice da reperire, racconta un viaggio che i due (e parte della loro fenomenale tattoo-family) intrapresero nel 1988 attraverso il Maghreb raccogliendo appunti, storie, informazioni e disegni su questa antica pratica. Questo volume, insieme alla notevole capacità ornamentale di questi tatuaggi e grazie al lavoro di molti tatuatori in tutto il mondo, sta portando ad un piccolo rinascimento di questa tradizione, altrimenti destinata alla storia.