Chiedo anticipatamente perdono per l’azzardo del titolo, a metà strada tra clickbaiting e un triplo carpiato all’indietro, ma il caustico inno generazionale di Cobain mi suona come il perfetto gancio per una rilettura assolutamente personale del concetto di spring break.

Già, un concetto, perché in fondo, in questa società che promuove a squarciagola la multiculturalità e l’individuale affermazione delle proprie differenze, ci stiamo silenziosamente affossando in un baratro di uniformità che puzza molto di roboante conformismo. E quindi si diano inizio alle feste, celebrando San Patrizio invece che l’unità d’Italia (per i distratti entrambi il 17 marzo) o replicando carnevale ad Halloween. Per carità, adoro l’isola di Smeraldo e tutto sommato una festa dei morti vale l’altra, ma tutta questa spersonalizzazione la si vuole davvero o la si accetta solo per non rimanere giù dal treno?

Tranquilli dietro quel monitor, qui niente braccia tese. Solo che il mio concetto di cittadino del mondo non ha il sapore del gin-tonic annacquato di quei bei locali impolverati zeppi di camice bianche. Devo andare un po’ più a fondo, sentirmi addosso le emozioni come il più comodo (o scomodo) dei vestiti. Con pazienza, fatica, insoddisfazione… Come tutte le cose belle.

Nulla mi lega a questo periodo di vacanza primaverile, che originariamente divide il primo semestre dell’anno nei college americani. A dire il vero nulla mi lega più a qualsiasi cosa riguardi il mondo della scuola, allontanata impunemente dall’anagrafe nelle pieghe del tempo. Allo stesso modo è improponibile un parallelismo con le nostrane vacanze pasquali, troppo lontane come spirito e intenzioni. E quindi? Finisce già tutto così? Nein… forse, soffermandomi con un po’ più di attenzione, un punto di contatto c’è.

Una linea sottile che mi porta a condividere più lo spirito originario dello spring break che l’idea di vacanza senza troppe inibizioni che lo accompagna.

Una sorta di momento di liberazione e spensieratezza, con il desiderio di sentirsi impunemente leggeri seppur immersi nella quotidianità. Uno stato d’animo elettrizzante che vive di brevi momenti, a volte di attimi, ma che rappresenta quel rifugio sicuro nel quale non smettere mai di nascondersi. Una condizione di inquieta serenità che tante cose ha in comune con quella adolescenza con cui si fa sempre fatica a fare i conti, tatuata nei ricordi e ammantata dalla luce dorata e melanconica che ne cancella le ombre. E allora ecco qui quel teen spirit che ambisco a ricercare, quella sensazione di spring break che voglio rivivere e ritrovare intorno a me.

Sì, ma dove? Beh, in certi casi i luoghi comuni nascondono mezze verità e spesso la risposta a certe domande non la si trova “all’esterno”. Meglio stapparsi una birra nella quiete della casa e, se la vita l’abbiamo un minimo vissuta invece che attraversata, possiamo contare su numerosi frammenti sparsi qua e là, che nascondono il potere e il profumo di quella sensazione liberatoria. È lì che mi aspetta, troppo forte per non essere percepita.

Seguo in parte l’istinto e in gran parte il cuore, e voglio partire da un luogo.

Mi rivedo in moto lungo le strade della verde Irlanda. Proprio l’Irlanda liberata dalle serpi (tradotto: convertita) da quel San Patrizio celebrato a colpi di Guinness. Seguo la traccia disegnata dalla costa nord-occidentale dell’isola, nei pressi di Sliabh Liag (Slieve League), le scogliere più alte d’Europa. Il cielo ha dipinto l’ennesima texture impensabile e imprevedibile, dove colori e forme si amalgamano in un vortice in continuo mutamento, trasmettendo una dinamicità in netto contrasto con le rocce immobili da migliaia di anni. Il panorama è dominato dai colori intensi dei prati intrisi di umidità. Tutto il resto è mare.

L’aria fresca non scalfisce la mia corazza antipioggia, mentre parcheggio la moto e libero lo sguardo. Sono in buona compagnia, circondato da pacifiche pecore al pascolo dall’invidiabile quotidianità, quando rivolgo le mie attenzioni verso un’altura poco distante. La affronto con un filo di fatica, attratto magneticamente da una forza sconosciuta. Passo dopo passo, il ritmo si rallenta così come il mio respiro. Mi volto e… Come uscito dall’orbita, sento il peso del mio corpo ridursi drasticamente. Le pressioni della quotidianità svaniscono quantomeno dalla mente e ritorno a quell’inquieta (e incauta) leggerezza che avevano quelle settimane di tarda primavera negli anni del liceo, quando ormai i giochi erano fatti e non ti restava che trascorrere gli ultimi giorni cercando qualche ricordo indelebile da appiccicare sul diario. Mi sdraio sull’erba di quel luogo remoto e mi sembra di avere davanti a me quelle infinite possibilità che all’epoca mi facevano paura e che adesso avrei bisogno di rivedere nuovamente.

Quell’incompletezza con cui convive perennemente la mia generazione (che poi è la stessa a cui parlava Cobain) ha un sussulto e in questa assenza di gravità mi sento spiritualmente energico e rinato, ritrovandomi molto più vicino agli “spring breakers” di quanto lo siano le coste dell’Irlanda a quelle della Florida o del Messico. Nel tradizionale valzer dei contrasti, è in un luogo di eccezionale quiete che mi sono sentito nuovamente strabordante di energia. Dall’altura in cui mi sono ritrovato, intravedo la moto parcheggiata poco sotto. In un modo o nell’altro sei sempre al mio fianco, vero?

Rientrato dal “viaggio” faccio un altro sorso di birra, adesso ancor più fresca e dissetante. Scavo tra i frammenti di pensieri mentre qualcosa mi spinge verso la mia collezione di musica. Data la dipendenza che ho, so di essere vicino a quello che sto cercando. In un tripudio di suoni trasversali, capaci di accompagnarmi in ogni minuscola sfumatura quotidiana, non è difficile trovare una colonna sonora capace, in passato come nel presente, di prendermi per mano con vitalità mentre mollo gli ormeggi.

Dalle tante copertine emergono brani che facevano parte di una playlist sopravvissuta e ampliata negli anni, nata su cassetta, trasferita su CD e infine su quell’iPod comprato d’importazione ormai quasi vent’anni fa. Insieme alla mia mountain-bike, regalata dai parents per la promozione 1993, era l’unica compagna di cui avevo bisogno quando nelle prime, lunghe giornate di aprile mi gettavo, disallenato ed entusiasta, sulle strade della provincia.

La trovate qui sotto, ve la regalo.

Avevo trovato un percorso tra paesini nei dintorni, con un range di chilometri accettabile. Niente di speciale, per lo meno per gli altri. Ma lo dovevo fare sempre nel tardo pomeriggio, quando la golden hour invadeva di giallo i campi e l’improbabile telaio camouflage della bici appariva incredibilmente cool. Certe canzoni dovevano suonare proprio in precisi tratti, ripetutamente, giorno dopo giorno. E gli oltre dieci chili di zavorra su due ruote sembravano così leggeri mentre cercavo di trascinarli lungo le brevi salite del percorso.

A fine giornata, ogni colpo sui pedali scrollava di dosso qualcosa e dentro di me si innescava un meccanismo virtuoso a cavallo tra il procrastinare ogni genere di problema al giorno dopo e il sentirsi immerso in un momento di disinvolta libertà che niente e nessuno avrebbe potuto arrestare. Niente di più meravigliosamente adolescenziale e vicino allo stato d’animo di un’irrefrenabile vacanza senza rimpianti. E la cosa misteriosa è che l’alchimia funziona anche oggi, così come la vecchia mountain bike, che ancora splende (si fa per dire) nel mio garage.

Ecco… Proprio il garage… Se solo ci fosse LUI parcheggiato in un angolo, allora non dovrei nemmeno stare qui sul divano a fantasticare per imbarcarmi nel più travolgente degli spring break. Basterebbero un paio di colpi di pedivella (perché dubito che l’avviamento elettrico possa funzionare ancora) per sentire il suo rumore assordante e sgraziato, a metà strada tra un aspirapolvere e un disco di musica industrial. Poggerei i piedi sulla pedana, darei un colpo deciso di acceleratore ed ecco che una travolgente euforia mixata ad un’insopportabile nostalgia mi porterebbe lontano nello spazio e nel tempo. Sì… ma LUI chi? Semplice, il mio inseparabile scooter dell’adolescenza, un fiammante Piaggio NTT nero.

Ehi, cosa sono quelle facce deluse?! Sono un figlio degli anni Ottanta e adolescente nei Novanta, che ha vissuto molto da vicino l’iperbolica ascesa degli scooter a scapito di quel mondo dei cinquantini a marce che in quegli anni stava decisamente perdendo mordente. Non c’era nulla di più accattivante di quei mezzi dalle linee aggressive, dotati di motori brillanti e indubbiamente facili da guidare. Nel cuore della provincia, a metà strada tra una canzone degli 883 e il disagio del grunge di Seattle, nulla mi faceva sentire più leggero di un “giro” in scooter. Senza meta, senza senso… Qualche chilometro a vuoto prima di tornare al ritrovo (in strada) con gli amici, un po’ di asfalto che non solo svuotasse la mente, ma che mi facesse sentire come se non mancasse niente.

In sella mi sentivo brillante, la miglior versione di me, quasi da mettere in mostra… Proprio come se camminassi ammiccante nel cuore di una spiaggia affollata.

Fortunatamente la moto è ancora oggi in grado di restituirmi sensazioni simili, ma in qualche modo la primitività di quei “giri” resta ancorata a quell’NTT nero con i loghi arancione fluo dalle improbabili ruote da 10’’ tassellate. Mi chiedo quale ridicola miscela esplosiva potrebbe generare la possibilità di salirci in sella oggi.

Torno ancora una volta sul divano. La birra è ormai finita ma lo spirito è ricolmo. Banale nostalgico o sindrome di Peter Pan mai risolta? Poco male: se a questo teen spirit mi ci terrò aggrappato con le unghie, i miei spring break continueranno ad essere grandiosi.