Se googolate “Harley-Davidson” più “wild”, i primi risultati sono una T-shirt con Taz di Looney Tunes in offerta, un profumo e una commediola su tre americani che cercano di superare in moto la crisi di mezza età. “Born to be”, il prefisso che due generazioni di biker hanno associato a una coppia di chopper Panhead incalzati dagli Steppenwolf, non compare che dopo una decina di pagine. Regolare.
Intanto, a fine luglio, nello spegnere le candeline al 120th Anniversary Party di Milwaukee, Harley-Davidson ha dichiarato uno stato di salute tutto sommato soddisfacente per l’età che si ritrova. La Motor Company è sempre stata il Partito repubblicano delle due ruote. Un marchio che, per quanto oggi abbia rinnovato con successo la propria gamma sotto l’aspetto tecnologico, resta abbarbicato come un mitile alla sua tradizione conservatrice. Al design che risale agli anni Trenta del secolo scorso. Alla sua storia d’acciaio all american. Altro che “outlaw machine” e “bike from hell”: in un articolo del 1914 sulla rivista “The Harley-Davidson Dealer“, il co-fondatore Arthur Davidson si chiede “quanti bravi ragazzi devono sacrificare le loro vite alla velocità? Noi siamo per i motociclisti sicuri, con la testa a posto, che usano i loro mezzi sia per il lavoro, sia per il piacere godendosi le moto per come sono state concepite”.

Davidson scrive dopo che due piloti e sei spettatori sono morti nel motordrome di Vailburg, New Jersey, durante una corsa di boardtrack racing, il circo Barnum della velocità dei velodromi, popolarissimo fino alla crisi del ’28. Quella era solo la più recente di una serie di piccole stragi che portò a ribattezzare “murderdromes“, mortodromi, le arene in parquet con le curve sopraelevate. Chiaramente il fondatore parlava per difendere il buon nome della ditta, dalla parte degli indignati. Eppure, furono quei piloti con un destino da gladiatore i primi wild men ad ammantare il Bar & Shield di ruvida leggenda.
Oggi, una disciplina come il boardracing possiamo solo immaginarla. Esaltante e pericolosa, poteva passare dall’esaltazione al sangue nel giro di pochi secondi. Tipo ciclismo su pista, ma drammatizzata dalla velocità, dal frastuono degli scarichi liberi, dall’incombenza della morte che faceva saltare il botteghino.

Figuratevi una dozzina di V-twin da litro che sfogano tutta la loro potenza sulle curve sopraelevate di un mega-muro della morte ovale. Le Harley e le Indian, le Cyclone, le Thor e le Excelsior hanno bicilindrici a valvole in testa con la distribuzione scoperta e la lubrificazione a perdere. No freni, no ammortizzatori: la forza di gravità schiaccia i piloti sui banking inclinati fino a 50° senza pietà, mentre cercano di prendere la scia di chi li precede a 150 all’ora sperando che il motore non esploda e prenda fuoco, cosa che accade con una certa frequenza.
Nelle foto d’epoca, Freddie Ludlow, Ralph Hepburn, Albert “Shrimp” Burns, Otto Walker ostentano sorrisi americani che tradiscono la paura. Corrono protetti da una cuffia di pelle da aviatore e da un maglione con la scritta Harley-Davidson ricamata. Vincono: il team di Milwaukee si autonomina Wreckin’ Crew, Squadra Demolizione. La loro mascotte è l’Hog, il maialino da latte che decenni dopo darà il nome all’Harley Owners Group. Non pochi ci lasciano la pelle perdendo l’aderenza sul parquet intriso d’olio. E per chi sopravvive a una caduta, o non vola direttamente fuori dall’ovale decapitando gli spettatori, ci sono le schegge del parquet che trafiggono la carne. Bombe a mano di legno. Ma non si tirano mai indietro: non si uccidono così anche i cavalli?


I mortodromi sono il primo tempio fumante dei duri con la Harley e un fegato grosso così. Quando la crisi del ’28 e la pericolosità decretano la loro fine, i selvaggi della velocità passano agli ippodromi aprendo le danze sghembe del flat track. Anche qui si corre sul filo dell’aderenza precaria derapando sul fondo sterrato. Di traverso in curva, sdraiati sul serbatoio in rettilineo fino a 180 all’ora.
Harley-Davidson domina il flat track fino agli anni Ottanta, con campioni come Cal Rayborn, Jay “Springer” Springsteen, il recordman Scott Parker, un cowboy da nove titoli nazionali in 11 anni. Dei drag racer vi avevamo già raccontato su Wheelz: selvaggi veri anche questi, su missili terra-terra che piegano le valvole e le leggi della fisica.
A Daytona, fra gli anni Trenta e i Cinquanta, si corre su un altro ovale: il rettilineo di bitume è quello della Statale 1, l’altro è sull’abrasiva rena atlantica della spiaggia. Se cadi, non sai cos’è meglio. Sono raccordati da due curvoni scivolosissimi, con i cespugli che prendono fuoco a contatto con gli scarichi incandescenti. In ogni caso caso: tenere aperto.
Nell’associare il sostantivo selvaggio alle Harley-Davidson, normalmente pensi a due film: “The Wild One” e “Easy Rider”. Roba vecchissima, di un altro secolo. Il primo è il più colossale buco di marketing della storia della moto, visto che Marlon Brando figheggia su una Triumph Thunderbird. È l’epoca alcolica degli onepercenters, l’un per cento marcio dei rider americani. Gli uomini che dopo la Seconda guerra mondiale hanno investito i loro dollari su una Harley-Davidson, anziché su una scatola da scarpe marchiata Ford. Veterani disillusi e frustrati. Giovani uomini che hanno guardato la morte negli occhi ogni giorno, strafatti di adrenalina… Difficili da ricollocare in un’officina, o dietro una scrivania. A chi importa di questi emarginati senza causa?
L’era delle motorcycle gangs ha ufficialmente inizio in California nel 1947, quando un contingente di motociclisti invade pacificamente la cittadina di Hollister. Una spudorata montatura stampa materializza una nuova creatura mitica e sfrenata, per un terzo giacca di pelle, un terzo V-twin e un altro bottiglia di birra. Nei decenni, la fascinazione del moderno selvaggio si perpetua nella cavalcata coast-to-coast di Dennis Hopper e Peter Fonda, nei biker movies e nella mitologia dei colori degli MC, i Motorcycle Club. Funziona ancora, attirando centinaia di motociclisti in cerca di un’omologazione alternativa, scelta dal basso dell’asfalto per sfuggire alle prospettive di una vita sciatta. Quello che li racconta con più efficacia, direttamente dall’interno/inferno, è Hunter Thompson, altro selvaggio della scrittura di una certa classe, nel libro “Hells Angels – a Strange and Terrible Saga“.

Un selvaggio vero, forse il più squilibrato e ambizioso mai visto su una Harley-Davidson, è Evel Knievel. Uno per cui tutto ciò che importa nella vita è saltare al manubrio alla sua XR750 Ironhead. Ha sorvolato di tutto: 15 Ford Mustang, autobus a due piani, 43 metri di veicoli vari. Il suo problema non è mai stato il volo, ma l’atterraggio. Un fastidioso dettaglio che gli ha procurato la frattura di qualsiasi osso avesse la sfiga di ritrovarsi nel suo corpo. Settimane di coma. Lui, incurabile figlio di Las Vegas, arriva a saltare un canyon su una specie di razzo, vestito come Elvis, ma con il gas al posto del microfono. Forse i record dicono di lui meno del suo primo salto ufficiale. È ancora un ragazzino, non lo chiamano ancora Evel, cattivo. Organizza, costruisce una rampetta, vende i biglietti, si auto-presenta al pubblico sparuto e incuriosito. Prende la rincorsa a manetta per sorvolare un rettilario brulicante di serpenti a sonagli, più una gabbia con due puma. Ovviamente sbaglia i calcoli, la ruota posteriore sbatte sul rettilario, è il terrore, il fuggi-fuggi. Un predestinato.
Con lui, celebriamo i 120 anni di Harley-Davidson com’è giusto che sia: brindando ai suoi uomini selvaggi, i piloti intemerati, i saltatori e gli scrittori senza rete, i duri che ne hanno davvero costruito la storia.
