Wyoming… Basta la parola (ammesso che la sappiate pronunciare) per evocare l’immagine color seppia di un’America capace di sprigionare il potere di oltre cinquant’anni di invasione culturale a base di sogni western, miscelato però al moderno revisionismo edulcorato, che proprio a quelle immagini sovrappone il pesante fardello coloniale che tutto ingoia, demonizzando e lasciandoci sospesi come su una fune. Tutto e il contrario di tutto, in un turbine di pensieri che non si sa dove indirizzare, in cui le coscienze oscillano tra l’attrazione verso quel mondo fiabescamente narrato e la sua veemente condanna morale, divulgata tramite potenti instagram stories colorate di iconcine cruelty free, tra un #adv e una frase motivazionale copiata da chissà chi.

Mai una volta che si riesca a fare un’analisi delle cose con un minimo di ordine. E lungi da me volervela propinare in questa sede. Però due o tre cosine si possono raccontare, non certo per dare risposte, ma per mettere lì qualche elemento, per evidenziare la meravigliosa complessità di certi luoghi che non meritano né ferree condanne né benedette assoluzioni, con buona pace degli amanti del televoto. E allora si vola in Uuuaiooming, per una cavalcata con la playlist giusta, una buona dose di curiosità e voglia di contraddizioni, ma anche di spazi immensi ed eventi al sapore di terra e birra. Sempre tenendo forti le redini e cercando di restare in sella.

La prima scalciata prova a disarcionarmi dalle parti di Cheyenne, città di frontiera e capitale dello Stato. E già il nome, ispirato al popolo nativo che abitava le Grandi Pianure, stride come unghie sulla lavagna. Quanta spietata “casualità” nel nominare così una città fondata lungo la Union Pacific Railroad… Già, la ferrovia… Proprio quella ferrovia di tanti vecchi film, quella che portava nell’ovest dell’oro e delle opportunità, quella costruita da immigrati (che ci si creda o meno, per lo più cinesi) e che ha contribuito a spazzare via i nativi dalle loro terre. C’è già materiale da caccia alle streghe e cancel culture tutto insieme. Ma resto imperturbabile e mi immergo nell’atmosfera western che in città si respira ancora a pieni polmoni. E quel che sento non è odore di plastica: qui niente folclore per turisti né bifolchi addobbati da mandriani. Si sente sulla pelle uno stile di vita dalle radici antiche e sincere, che si vuole preservare non come una granitica opposizione al cambiamento e al progresso culturale e nemmeno come necessaria volontà di imposizione dello status quo.

Per provare a capire di cosa sto parlando basta capitare in città nel mese di luglio, quando scattano i Frontier Days. A vedere le immagini sembrano “solo” dieci giorni di festa sfrenata a base hamburger, tori e cavalli imbizzarriti da domare, concerti country e intrattenimento di ogni genere. E uno potrebbe pensare che si tratti della solita celebrazione a trazione repubblicana, tutta cappelli da cowboy, fucili e Make America Great Again. E in parte è anche vero. Ma c’è in più un legame autentico con i propri usi, costumi e con tutto il contesto dal quale essi sono nati che, per quanto posseggano anche aspetti eticamente discutibili, non devono essere giudicati in maniera netta e men che meno dimenticati o cancellati. Casomai capiti.

Certo il Wyoming non ti rende il compito facile, per niente. Come quando scopro che qui le donne hanno iniziato a votare nel 1869. Anche se la vicenda nella sua genesi ha qualche traccia di white suprematism, stiamo comunque parlando di 77 anni prima del suffragio universale italiano.

Cerco delle certezze volgendo lo sguardo altrove, mentre osservo i bull rider sprigionare tutti i loro sforzi per tenersi stretti al feroce animale che li sta sballottando come bandiere al vento, finché una locandina vecchia più di un secolo non attira la mia attenzione. Cheyenne Motor Club.

Dai cavalli ai cavalli vapore il passo è breve. E scopro che qui a Cheyenne non solo fu tracciato uno dei primi circuiti speedway di tutti gli Stati Uniti, ma che vi corsero praticamente in contemporanea alla prima gara ad Indianapolis, nel 1909. Come?! Qui nella terra dei cowboy si correva in auto già all’inizio del secolo scorso?! Mi sento trasalire, come se avessi appoggiato le chiappe su Steamboat, il temibile cavallo originario di questo Stato che nessun cowboy è riuscito mai a cavalcare.

Risalgo in sella con le mie più intime certezze già belle che sgretolate. Ma apprezzo il fatto che il viaggio mi induca a contraddirmi, a riparametrarmi.

Foto Cheyenne Race © J.E. Stimson

Shoshoni, altra cittadina, altro popolo nativo che ha gentilmente donato il nome, prima ovviamente di finire confinato dalle pieghe della storia nella Wind River Reservation, che si sviluppa poco distante verso ovest. Questa, come tante altre riserve nel territorio degli Stati Uniti, cela tra l’incontrastata natura dei suoi ambienti, una complessità di dinamiche in cui è difficile districarsi, soprattutto per noi europei, che quando ci affacciamo alla storia americana sappiamo solo dire “che è povera e di breve durata” oltre che costellata di crimini coloniali. Già, noi, dalle nostre portantine dorate marchiate SPQR.

Come sempre la giusta medicina contro la banalità è quella di guardarsi intorno, con modestia e possibilmente in silenzio. I segnali si colgono meglio senza il rumore di fondo del nostro ego.

Attraverso la minuscola cittadina costellata di mobile house, sgangherate villette in legno, quattro negozietti e una manciata di chiese. Non è questione di povertà o meno, ma il disorientamento di un luogo senza più radici a lasciare quell’amaro in bocca che vorrei sputare quanto prima, per sciacquarmi palato e coscienza. Mentre Guilty of being white dei Minor Threat risuona armoniosamente nelle mie cuffie, riprendo con fermezza le redini constatando che forse non tutto è perduto. Se il disastro delle riserve è sotto gli occhi di tutti e le questioni legate allo sfruttamento della terra riempiono ancora oggi le aule dei tribunali, c’è chi in quelle radici vede ancora linfa.

È la memoria l’unica ancora di salvezza, obiettiva e concreta, fatta non di recriminazioni e dita puntate ma di azioni concrete. È quella che si vede nelle comunità locali come l’Eastern Shoshone Tribal Cultural Center di Fort Washakie o nelle iniziative private del Wind River Wild Horse Sanctuary, dove i visitatori possono vivere un’esperienza a stretto contatto con i mustang selvaggi, approfondire la cultura dei nativi americani e sperimentare la vita e il lavoro in un ranch nella riserva.

E poi l’educazione, come sempre alla base di ogni cambiamento. Si è dovuto aspettare fino al 2017 ma le istituzioni dello Stato hanno imposto una completa revisione dei programmi scolastici per affrontare finalmente la cultura tradizionale e la storia delle tribù dei nativi della regione, tracciando una rotta completamente nuova e iniziando a lavare la vergogna delle residential schools, che fino a pochi anni fa (anni, non decenni) “rieducavano” i bambini nativi agli usi e costumi occidentali.

Resto frastornato mentre seguo in sella il corso del Wind River che taglie infinite praterie. Questi spazi trasmettono sensazioni che necessitano ancora una volta di esserci, il cui spirito si ritrova anche nei piccoli bar lungo la strada. Chissà se riaprirà il vecchio “Mac’s Bar & Liquor”, alle porte di Thermopolis. Fuori pareti in legno e targhe colorate appese, dentro poca luce, biliardo, musica diffusa e un barista con voglia di chiacchierare.

Sì, a volte anche gli stereotipi servono a bilanciare il tutto, come quando decido di dormire all’Occidental Hotel di Buffalo, dove le storie del vecchio West e dei suoi miti trasudano dalle pareti. Butch Cassidy e la banda del Mucchio Selvaggio mi vogliono indicare la via? O forse meglio farsi ammaliare dal Wild West Show di Buffalo Bill, uomo di frontiera, cacciatore di bisonti, eroe della guerra civile, esploratore, showman e uomo di spettacolo. È forse lui la personificazione di questo viaggio, di questo stato, di tutte queste contraddizioni che hanno cercato di disarcionarmi lungo questa cavalcata? Forse (e per fortuna) non rappresenterà tutte le anime del Wyoming ma di certo evidenzia come le persone, la storia, i luoghi, non siano mai così banali come farebbe comodo che fossero. Ormai sono felicemente rassegnato a non aver facili risposte. Per fortuna, altrimenti viaggiare sarebbe una noia.

Cody, cittadina il cui nome è ispirato proprio a Buffalo Bill (all’anagrafe William Cody), mi permette di accarezzarne un po’ il mito, prima di concedermi un salto al rodeo. Mi chiedo se dietro a quello che è ben più di uno sport tradizionale non si nasconda un qualche messaggio filosofico che cerco in qualche modo di cogliere. Un parallelismo con la necessità di aggrapparsi alla vita e dominarla con tutte le nostre forze? Chi lo sa… Ad ogni modo è l’ultimo giro di giostra prima di dirigermi alle porte di Yellowstone, parco naturale che ognuno dovrebbe visitare una volta nella vita. Non troverò l’orso Yogi (spero) ma forse un po’ di pace in mezzo alla natura mi rimetterà in sesto.