Ok, se dico che questa è una storia nata sulle pagine di Postalmarket qualcuno di voi potrebbe fraintendere. Ma no, questa volta non c’entrano le foto delle modelle in intimo, che già lo vedo il vostro sorrisetto compiaciuto, maliziosi.
Pochi di voi se la ricorderanno, ma negli Anni 80 su quella specie di Bibbia c’era anche un’altra sezione che faceva viaggiare con la fantasia noi ragazzini. Era dedicata ad epiche spedizioni nelle impenetrabili foreste del Borneo e dell’Amazzonia, della Guinea e di Sumatra, in cui impavidi eroi affrontavano ardue prove di abilità e di sopravvivenza. In quell’antenato cartaceo dei moderni shop online potevi acquistare coltelli da survival, orologi, sahariane e field jacket, borracce, corde e bussole, filtri per l’acqua e jungle hat. Insomma, tutto il necessario per sopravvivere in un ambiente estremo e inospitale come solo una giungla equatoriale può essere.
Io sognavo di essere uno quegli uomini nerboruti e temerari, di affontare ponti tibetani, di farmi strada nella foresta a colpi di machete e di attraversare guadi e fangaie con le mitiche Defender, sulle quali campeggiava il logo del Camel Trophy, la mitica (e durissima) competizione internazionale di fuoristrada. Era una gara estrema, una delle più dure al mondo, sponsorizzata dal noto marchio di sigarette.

Il Camel Trophy mi ha fatto letteralmente sbarellare per quei mitologici mezzi a quattro ruote motrici che sembravano inarrestabili come carri armati. È stato un po’ come gli speciali della Dakar per le moto o i video di Miki Biasion per le auto da rally: un imprinting. Ecco finalmente spiegata dove è nata la mia passione sfrenata per tutto quello che va fuori dall’asfalto.
Ma torniamo al Camel Trophy e a come è nata la sua leggenda.
Sembra incredibile, ma la gara nasce come una mera operazione di marketing per promuovere il marchio Camel. Principalmente perché l’immagine dell’azienda nelle pubblicità dell’epoca veniva associata a quella dell’uomo rude e avventuroso, che attraversava le giungle e i deserti a bordo di una 4×4. La filiale tedesca della RJ Reynolds Tobacco decide allora di promuovere il brand proprio tramite un raid nella giungla. Seleziona 3 equipaggi della Germania Ovest (c’era ancora il Muro), fornisce loro 3 Ford U 50 (in pratica delle Jeep CJ5 prodotte su licenza dalla Ford in Brasile) e, dal 30 aprile al 15 maggio del 1980, li lancia alla conquista della Transamazzonica, la strada che taglia l’Amazzonia dall’Atlantico alle Ande, lungo un massacrante percorso di 1600 km. Operazione geniale se pensiamo al costo irrisorio della stessa paragonato alle faraoniche sponsorizzazione della F1, terreno d’elezione delle grandi multinazionali del tabacco.

Al traguardo di quella prima edizione arriveranno solo due auto, di cui una con sole tre ruote, perché una andò bruciata dopo il cedimento del motore a causa delle condizioni infernali della gara (e nel corso degli anni non fu certo l’unica…).
I partecipanti dovettero lottare contro temperatute oltre i 40° con umidità del 98%, una giungla talmente fitta che a volte ci voleva un’ora solo per fare 100 metri, insetti e serpenti velenosi, zanzare grandi come Stukas che distribuivano malaria e altre malattie endemiche come fossero confetti a un matrimonio, notti in amaca, fangaie impestate, fiumi da attraversare sopra traghetti in legno malconci e pure poliziotti da ungere a suon di stecche e magliette.
Ma come alla fine di Metal Slug (cult dei videogame da bar Anni 80), “mission accomplished”. Tutti gli equipaggi, anche se su due sole vetture, arrivarono al traguardo grazie soprattutto al cameratismo, allo spirito di squadra, alla tenacia e alla capacità di adattamento dei partecipanti. Doti che diventeranno il vero e proprio spirito della manifestazione. Inutile dire che, in beffa ad ogni pessimistico pronostico, l’operazione di marketing ebbe un successo incredibile e gli organizzatori vennero subissati di richieste per partecipare all’edizione 1981 (sempre riservata ai soli amici teutonici).
Questa esclusività contribuì ad ammantare la manifestazione di un alone da leggenda, una sorta di misticismo. Era la sublimazione del machismo Anni 80. L’uomo rude, avventuroso, impavido. Pensate che arrivarono ad avere 500.000 richieste di adesione e il massimo degli equipaggi in gara arrivò a 16!

Dal 1981 gli equipaggi guidano le vetture (opportunamente preparate) del marchio di Solihull, creando un binomio indissolubile che durerà fino al 1999. Dal 1982 gli organizzatori aprono la porta ad equipaggi provenienti anche da Italia, Olanda e Stati Uniti. E indovinate chi fa la parte del leone? I nostri portacolori ovviamente. L’edizione in Papua Nuova Guinea venne vinta da Cesare Giraudo e Giuliano Gongo al volante di Range Rover. Nel 2000, anno dell’ultima edizione della gara, vennero usate delle Honda CR-V, ma solo come supporto, in quanto la maggior parte della competizione si svolse nel mare di Tonga a bordo di veloci gommoni a chiglia rigida RIBTECH (quelli che usano i Navy Seal o i nostri Incursori del Comsubin, per intenderci). A proposito, abbiamo vinto pure le edizioni 1984 (con Maurizio Levi e Alfredo Radaelli) e 1987 (con Mauro Miele e Vincenzo Tota).
Ma nell’immaginario collettivo il Camel Trophy sarà sempre legato a Land Rover, alle gloriose Defender, alle elegantissime Range Rover (a dimostrazione che pur essendo l’antesignano dei moderni Suv andava veramente dappertutto), alle inarrestabili Discovery e alle agili e versatili Freelander.
Tutte rigorosamente con la celeberrima livrea sabbia e logo blu Camel Trophy sulla fiancata.
20 anni di Camel Trophy dicevamo, dal 1980 al 2000, passando per Brasile, Borneo, Siberia, Mongolia, Burundi, Terra del Fuoco, Tonga, Australia… E ogni anno il numero dei partecipanti, le difficoltà della gara e il prestigio della stessa sono cresciute a dismisura, fino a farla diventare (assieme alla Parigi-Dakar) il raid più importante al mondo.
Ma cos’aveva di così speciale? Perché equipaggi da tutto il mondo facevano letteralmente a gara per partecipare alla gara? Cosa la rendeva così agognata?

Intanto non potevi iscriverti, dovevi essere selezionato. Eh sì, non è che arriva il fighetto di turno con due lire in tasca e un po’ di voglia di avventura e via. No caro mio. Il diritto a quella faticaccia immane dovevi pure meritartelo. Come? Partecipando alle selezioni. E per passarle dovevi superare prove di guida, di ardimento, prove fisiche e chi più ne ha più ne metta. Insomma, come per entrare in un reparto speciale.
La selezione era durissima e iniziava già nel paese di provenienza. Dopo questo primo step arrivava una telefonata in inglese (uno dei tanti requisiti era la capacità di sostenere una conversazione in inglese, appunto), seguita da colloqui con psicologi e valutazioni sulla preparazione atletica, la capacità di adattamento a situazioni di stress e fatica, sulla capacità di lavorare in gruppo (anche con gli avversari) e sulle competenze meccaniche. I candidati dovevano essere in grado di riparare un motore o gli organi meccanici della vettura e saper usare una binda o un verricello. E poi conoscere la cartografia e sapersi orientare con mappe, bussola e sestante (all’epoca non esistevano i GPS). Valutavano pure la conoscenza della storia di Land Rover! Oltre naturalmente alle capacità di guida non comuni in fuoristrada, ça va sans dire.

Dopo questa prima scrematura gli equipaggi ammessi venivano spediti in una tenuta nella campagna inglese dove si allenavano per 10 giorni a bordo delle vetture scelte per la gara. Qui veniva effettuata anche l’ultima, spietata, definitiva selezione.
E qual era il segreto per arrivare alla fine, magari puntando alla vittoria? Il lavoro di squadra, il sacrificio, la voglia di misurarsi in una sfida massacrante, ma di farlo come gruppo e non come singolo. Ecco, se c’è una cosa che mi ha sempre trasmesso il Camel Trophy è proprio questa: per arrivare alla fine serve il gruppo, l’aiuto di tutti. Potevi avere le palle di un guerriero Maori, il fisico di Schwarzenegger, l’intelligenza di Elon Musk e le capacità di guida di Markku Alen, ma da solo quella gara non l’avresti mai finita. Guardatevi qualche video degli equipaggi che si aiutano a vicenda a sollevare una Defender in bilico su un burrone, piantata in una fangaia o immersa nell’acqua fino alle portiere e capirete cosa intendo. Un gruppo di persone che si aiutano per arrivare alla fine: fatica, sudore, coraggio, uomini e auto leggendari, natura selvaggia, luoghi da fiaba.
Poi venitemi a chiedere perché mi piacciono tanto le avventure in fuoristrada (e il Postalmarket).