Qualche settimana fa mi sono trovato per motivi vari a gironzolare tra rocce e sabbia del deserto di Agafay, in Marocco. Silenzio, polvere e il nulla a perdita d’occhio. Insomma, la bellezza incredibile del niente. Eppure, c’era della musica che mi risuonava nella testa. Non quella che usciva da una radio e neppure un ritmo che qualcuno suonava dal vivo. Era proprio nella mia testa che faceva la spola tra un neurone e l’altro. Musica che dallo stomaco arrivava al cervello, fatta di chitarre elettriche, resofoniche, batteria dal suono ancestrale e ritmico. Voci roche e dannatamente sabbiose.

Ho pensato a Vernon Subutex, protagonista della Trilogia della città di Parigi, romanzo di Virginie Despentes che narra le gesta di un improbabile dj, ex proprietario di un negozio di dischi, poi clochard e poi ancora guru improvvisato per una comunità freak che vive di rave-rock in luoghi sperduti, tra polvere e playlist all’insegna di una musica che non si ascolta più granché. Loro, i freak, le chiamavano convergenze. Ecco, mi trovavo nella mia convergenza (ma solitaria), nel bel mezzo del nulla. La mia personalissima e del tutto improvvisata desert session mentale.
Già, le Desert Sessions (questa volta con le lettere maiuscole) come quelle di Josh Homme, proprio quello dei Kyuss, dei Queens Of The Stone Age e degli Eagles Of Death Metal (che no, non hanno mai fatto death metal), presente? Lui e i suoi amici che rispondono a nomi come PJ Harvey, Jeordie White, Dave Catching, Nick Oliveri, Mark Lanegan (ah quanto ci manchi Mark!), John McBain e tutta una serie di altri esponenti della cosiddetta Palm Desert Scene, dal deserto della California e da chissà cos’altro mentre ci si trovavano, si sono fatti ispirare per creare un vero e proprio collettivo musicale. Josh, PJ, Mark e tutti gli altri, al Rancho della Luna, nel deserto di Joshua Tree e negli anni Novanta. Già così, è una storia incredibile.
Certo, facile fare la musica figa nel deserto della California, tra coyote, cactus e un passato/presente/futuro da rockstar mondiale. A crearmi la mia playlist mentale io però mi trovavo in Nord Africa e attorno a me non c’erano nemmeno i cactus, non vedevo nulla a parte i sassi. E davanti a quei sassi, ho pensato mentre bevevo il mio sacrosanto tè, ci si era trovato sicuramente anche Bombino, pseudonimo di Goumar Almoctar, chitarrista e cantautore nigerino di etnia tuareg.
Lui, Bombino, l’ho scoperto con imperdonabile ritardo solo qualche anno fa, sul palco del Premio Tenco. L’aveva chiamato a suonare con lui con Francesco Motta (che dal deserto potrebbe benissimo venire, se non fosse nato a Livorno) e mi si è aperto un mondo, fatto di chitarre distorte, rocce (piccole, grandi e infinitamente piccolissime) e sudore, odori e passione. La passione sconfinata del deserto e della sabbia, che non lascia traccia né del tempo e tanto meno del suono. Puoi solo tenertelo nella testa e raccontarlo, quando ti capita. Poi però ricacci tutto da dove è venuto.