C’era una volta…
Si narra che…
Ammetto che questa volta non ho la minima idea di come iniziare. Quando mi hanno detto di scrivere un pezzo sugli stivali da cowboy ho un po’ vacillato, conoscevo poco o niente dell’argomento e l’incertezza si stava insinuando in me, come quando sei al terzo Lagavulin e inizi a sentire quel calore familiare che ti pervade lentamente. Scrivere di una cosa che non conosco per me è come un affrontare quella strada sterrata sconosciuta in mezzo al bosco senza sapere dove ti porterà.
Ovviamente ha vinto l’irresistibile richiamo verso l’ignoto, as usual, e quello che leggerete ne è il risultato.
Che poi in realtà la parola “cowboy” non mi è estranea, anzi. Evoca in me ricordi indelebili legati alla mia infanzia. Posso dire di essere cresciuto a pane e Spaghetti Western e la mia memoria è andata subito ai film di Sergio Leone che guardavo con mio padre, al Texano dagli occhi di ghiaccio, al duello de Il Buono il Brutto e il Cattivo, agli sguardi di Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef.
Mettetevi comodi e fate partire la playlist qui sotto, così vi racconto di più.

Mi sono tornati in mente i fumetti di Tex Willer, Zagor, i vecchi telefilm sul West (non si chiamavano ancora Serie TV come oggi) e gli sganassoni di Trinità e Bambino. Tutti eroi accomunati da quelle affascinanti calzature che donavano loro un’andatura quasi claudicante.

Ma non solo western eh, chi non ricorda le evoluzioni del Generale Lee di Bo e Luke Duke in Hazzard, sempre rigorosamente in stivali, jeans e camicia a quadri (menzione d’onore, comunque, a Daisy Duke, che in shorts e sandali ha fatto la fortuna di centinaia di oculisti), o l’iconica combo jeans/t-shirt bianca/stivali di James Dean ne Il Gigante?

Ultimamente ho anche avuto un importante ritorno di fiamma sul tema guardando la serie TV Yellowstone e i suoi vari spin-off (serie che vi consiglio, è STREPITOSA, occhio però che qui il pericolo emulazione è dietro l’angolo e potreste ritrovarvi in un amen a trangugiare ingenti quantità di bourbon discutendo di vacche e cavalli con l’onnipresente stuzzicadenti all’angolo della bocca).
Alla fine, gli stivali da cowboy sono come una una sottile linea rossa (non me ne voglia Terrence Malick) che ha accompagnato tutta la mia vita. Li indossavano le star del cinema che amo, sono la calzatura d’ordinanza delle mie rockstar preferite (io sono un appassionato di southern rock, e quelli li portano pure per andare a dormire gli stivali…). Nella mia personale (e discutibile) visione della moda sono un accessorio irrinunciabile, da abbinare ai miei tanto amati denim e alle mie decine di camicie a quadri.

Ok, fine del momento revival, adesso è giunto il momento che vi spieghi come sono nati, chi è quel gran genio che li ha inventati e perché si sono diffusi e continuano a cavalcare l’onda della moda dopo un paio di secoli.
Primo colpo di scena: gli stivali da cowboy non sono un’invenzione a stelle e strisce come potrebbe essere lecito pensare, ma sono frutto dell’inventiva di Sir Arthur Wellesley, Duca di Wellington.
The Iron Duke come veniva chiamato dai suoi conterranei all’epoca. Quello che ha sconfitto Napoleone a Waterloo, l’ispiratore del filetto alla Wellington e, secondo leggenda, colui al quale è stato dedicato il nome della capitale della Nuova Zelanda, Wellington appunto. Riconosciuto donnaiolo, dedito al gioco d’azzardo e all’alcool (vizi poi quasi abbandonati in favore della severa disciplina militare), virtuoso del violino, fine stratega e grande condottiero in battaglia.
Insomma, un figo della madonna. Ma oltre alle suddette doti, il nostro era universamente conosciuto per l’estremo senso pratico e il buongusto nel vestire. Fu così che Arthur chiese al suo sarto degli stivali su misura su suo disegno, lavorando su quelli che usava abitualmente. Stivali che altro non erano che quelli d’ordinanza degli Ussari, gli Hessian, famosi per la comodità e l’impermeabilità ottenute grazie alla particolare concia del cuoio di vitello. Le modifiche richieste consistevano nel tagliare gli stivali sotto al ginocchio, togliere la fodera interna, allargarli un po’ in modo che ci potesse infilare i suoi pantaloni lunghi. Una sua particolarità, visto che a quel tempo gli uomini utilizzavano pantaloni corti sotto al ginocchio.

Lo stivale così modificato è stato il primo Wellington della storia, il Mark I insomma. Ha fatto scuola, tutti lo hanno adottato, si è tramandato di generazione in generazione fino ad oggi e fine della felice storia. Facile no? Cazzo no invece, qua inizia il casino, almeno per me che devo districarmi in questo ginepraio.
Qualche anno dopo infatti, precisamente nel 1852, Charles Goodyear brevetta la gomma naturale, che da quel momento diventa parte fondamentale dell’industria calzaturiera. Charles ridisegna i Wellington sostituendo la pelle di vitello con la sua nuova invenzione, creando lo stivale Wellington così come lo conosciamo oggi: il banale stivale in gomma, o galoscia. Quello che voi usate per andare nell’orto in sostanza, o quello che sembra un accessorio di haute couture se indossato da Kate Moss in succinte vesti in mezzo al fango di Glastonbury.
Oggi i Wellington (o Welly) sono parte integrante del guardaroba di ogni inglese che si rispetti, perfetti per le umide giornate anglosassoni, per una battuta di caccia nella brughiera o per un concerto in mezzo al fango assieme a Pete Doherty.

Ma torniamo agli stivali da cowboys. Che c’azzeccano con un Duca inglese, con il fango, la brughiera e quel gran pezzo di figliola di Kate Moss? C’azzeccano c’azzeccano, un attimo che vi spiego. Torniamo per un secondo nella perfida Albione.
Wellington era un brillante militare britannico no? Ok, i suoi comodi stivali si diffusero velocemente tra le fila dei soldati brit, appunto, stregati dall’impermeabilità e dal comfort che questi garantivano ai loro poveri piedi. Ecco, vi ricordate che la Gran Bretagna combattè aspramente nel conflitto Anglo-americano ad inizi 800 contro quelli che poi sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America?
Lo vedo il criceto che inizia a girare nella vostra testa… Ebbene sì, i Wellington “Mark I” iniziarono a diffondersi anche tra i soldati americani, che come la controparte inglese ne apprezzavano le qualità.

Gli americani però si sa che vogliono sempre dire la loro, quindi iniziarono a modificare i Wellington secondo le loro esigenze (n’altra volta).
La monta all’americana è notoriamente diversa dalla monta all’inglese, come sono diverse le staffe, le selle e i finimenti. Gli Yankees applicarono così un particolare tacco più pronunciato e dal caratteristico taglio obliquo, il cosiddetto tacco cubano, per garantire una maggior presa sulle staffe durante la cavalcata. Cambiarono la morbida pelle di vitello con un cuoio molto più spesso e rigido per proteggersi dai serpenti e per rendere gli stivali più robusti, dovendo trascorrere molto più tempo a cavallo rispetto ai nemici inglesi. Adottarono anche una singolare suola a banana per essere più veloci ad infilare il piede nelle staffe nel caso avessero dovuto montare velocemente in sella per scappare magari da una tribù di pellerossa incazzati come bisce.

Ovviamente poi gli stivali hanno subito varie influenze, la più celebre è quella messicana con gli stivali “vaqueros”, di chiara derivazione spagnola (la Spagna colonizzò infatti Messico e Texas). I moderni stivali da cowboy rappresentano il perfetto mix di questi diversi stili. Va da sé che dall’ambito militare gli stivali passarono rapidamente anche alla sponda civile, essendo molto apprezzati da cowboy, vaccari, pistoleri e tagliagole vari. Il notevole successo portò ad una maggiore ricercatezza estetica, con nuove finiture, cuciture, materiali e ammennicoli vari quali puntali in ferro, teste di serpente, ecc ecc.
Con una punta di italica fierezza, è doveroso ricordare che anche noi avevamo i nostri cowboy. Nella Maremma toscana e laziale infatti imperversavano i Butteri, dei pastori a cavallo che per abilità, look e personalità non avevano niente da invidiare ai colleghi d’oltreoceano.
Dove eravamo rimasti? Ah sì, allo stivale texano. Ormai le caratteristiche e gli stilemi tipici erano “codificati” e gli stivali diventarono rapidamente la calzatura d’elezione di soldati, lavoratori, cowboy e agricoltori. Così rimase fino ai primi del ‘900, quando grazie ai primi film e trasmissioni radiofoniche sul selvaggio West, gli stivali divennero un oggetto di moda diffondendosi anche tra la borghesia e l’aristocrazia. Successivamente, negli Anni 50, grazie alla diffusione dei rodei e della musica country, la popolarità dei texani schizzò alle stelle e gli stivali iniziarono ad essere prodotti in milioni di paia, realizzati in tutte le forme, colori e stili.

A contribuire ulteriormente a questa ascesa furono anche le prime pellicole hollywoodiane e il rock’n’roll. Marylin Monroe in versione pin-up, l’aria selvaggia di James Dean e Marlon Brando, il look di Elvis Presley e Johnny Cash, furono delle autentiche bombe di marketing il cui eco si protrae ancora oggi.


Ormai simbolo Made in USA come la Coca-Cola, l’hamburger e l’Harley, gli stivali hanno trovato spazio in ogni epoca, moda, passerella e status sociale. Continueranno a dividere la critica e ci sarà sempre chi li trova scomodi, kitsch o eccessivi. Ma scagli la prima pietra chi non ne ha almeno un paio nell’armadio, in attesa solo dell’occasione giusta per sfoggiarli, magari assieme ad un bel paio di Tellason e ad uno Stetson ridge top.
Ora dovrei sellare il cavallo e partire al galoppo verso il tramonto senza guardarmi indietro. In realtà mi apro una birra, mi spalmo sul divano e mi guardo l’ultimo episodio di Yellowstone.
Stay Wheelerz