…There’s just too much I want to do,
so many things I’d like to do
and there are things I have to do but I forget to

Even if time stood still
We’d still be running
Trying to achieve something but we don’t know what…

 

Come un mantra, queste parole mi risuonano solennemente in testa ogniqualvolta mi ritrovo amaramente schiacciato da una miriade di pensieri, idee, sogni, impegni, interessi. Invece di essere la rappresentazione di una mente fervida e di una vita mossa da un pregevole dinamismo, vivo questi momenti come se fossi attraversato da un devastante tornado, che lascia alle sue spalle scenari aridi e privi di forma. E allora ecco che parte la musica e quelle parole, che non sono altro che un furioso ritornello di una band skate-punk di fine anni Novanta dall’iconico nome Satanic Surfers. Rimbombano forti dalle casse, trasformandosi in una risentita presa di coscienza di un approccio alla vita che tante volte ho provato a rifuggire senza mai riuscirci del tutto.

Impressiona pensare quanto quel messaggio mi avesse già colpito all’epoca, ispirandomi primordiali riflessioni sulla gestione del mio tempo.

Il periodo era quello della scuola e del vino scadente, delle compagnie di amici e delle ragazze sempre un passo oltre la propria portata, del portafogli (vuoto) con catena legato ai pantaloni Dickies, delle Airwalk ai piedi e delle maglie extralarge delle band. Eh no, non dirò che quello era un bel periodo perché c’era poco a cui pensare! Questa devianza malinconica non mi si addice ed è anche piuttosto lontana da ciò che era quella realtà. Responsabilità, passioni e pressioni ce n’erano eccome, avevano il loro peso ed era importante imparare a gestirle, a non esserne sovrastato, iperstimolato, semplicemente travolto.

È in quella fase della vita che altrimenti inizia la “corsa”… Ci si ritrova su un binario che non conduce da A a B, ma che gira perennemente in tondo, mosso da un’inerzia che diventa via via sempre più inarrestabile. Ad ogni giro un nuovo record di velocità, sempre di più, sempre più forte. Fino a perdere di vista le possibili vie di uscita, che diventano sfocate, impercettibili, impossibili da imboccare. Ti ritrovi così nel corpo di un adulto in balia di una giostra circondata da musica, luci e colori, dove tutto appare meravigliosamente luccicante, ma irraggiungibile. Allunghi la mano e non riesci ad afferrare nulla, puoi solo guardare il panorama scorrere e ripetersi. Che incubo, che dannato incubo!

La portata devastante di questa trappola non è che amplificata oggi, in questi tempi devoti al dio degli stimoli, in cui siamo bombardati dalle continue interconnessioni con il mondo e come spugne assorbiamo ogni genere di input. Curiosi come siamo stati allevati ad essere, vogliamo inseguire ogni cosa, fagocitarla al più presto per inseguirne un’altra e un’altra ancora. Divoratori seriali di esperienze, maciniamo chilometri con ogni mezzo, senza pace, alla ricerca della massima ottimizzazione, credendo di sfruttare appieno ogni momento, riempiendo ogni millimetro di vuoto, per arrivare sempre un passo più in là, sempre “prima”. Perché di rallentare, di fermarsi un attimo, di percepire “l’assenza”, di concentrarsi su qualcosa (ad esempio su se stessi)… Eh no, quello fa veramente troppa paura.

Lo si vede in ogni singolo aspetto della quotidianità, dal micro al macroscopico, dal lavoro alla gestione dei rapporti, fino a quei piccoli ritagli che amiamo chiamare “tempo libero”. E poi sì, anche nel modo di viaggiare ad esempio. Lontani dal suo spirito essenziale, persi tra le necessità di far parte del clan e di trovare un pratico diversivo dai propri demoni, si inseguono destinazioni, per riempire la cartina di puntine, freneticamente.

Si prenotano voli in base alle offerte, si stilano programmi serrati da incastrare nell’app di planning. E poi via, una cosa dietro l’altra, location dopo location, perché niente deve mancare all’appello, soprattutto nel nostro feed. E quando tutto sta per finire ecco che la mente ha bisogno di attivarsi per il prossimo viaggio… si sa mai che trovo un’offerta su booking. Due anni di covid hanno compresso dentro di noi una frustrazione che oggi si sfoga nel voler voracemente consumare e vedere ancora di più, ancora più spesso. Mettere il fast forward per cercare di essere più veloci di un tempo ormai svanito. Non è così che lo recupereremo, non è così che facciamo del bene a noi stessi, al nostro equilibrio.

È forse il momento di prendere questo inebriante culto della velocità e accartocciarlo una volta per tutte, spedendolo diritto nella casella delle abitudini fortemente nocive?

Se penso ad un luogo che mi possa aiutare nello scopo, immagino il mio amato Friuli. Una regione che ho scoperto sempre e comunque troppo tardi. È perfetta per il mio profilo: montagna e mare, storia e tradizione, eterogenea culturalmente, ricca di influenze e contrasti, onesta e spigolosa, annaffiata da vini eccellenti. Però non voglio tutto, non così, non subito. Mi focalizzo su una zona, il Collio, piccola mezzaluna proprio a ridosso del confine sloveno racchiusa tra Cividale e Gorizia. Intorno è solo un alternarsi di dolci colline ricoperte da vigneti. Macchine poche, trattori tanti.

L’asfalto scompare immerso nel verde e non importa nemmeno con quale veicolo io lo stia percorrendo perché sarà comunque quello ideale: bici? Perfetto. Moto? Eccellente. Dove sto andando? Da nessuna parte. Ho qualcosa da vedere? Niente di particolare. Quanto vorrei fermarmi? Giorni. Sì, giorni. Tra piccoli paesi, camminando nei centri storici e faticando a comprendere i dialetti. Mangiando nelle trattorie, dove l’intricato mix culturale di quest’area serve in tavola cjarsons, musèt e brovada, frico e gulash. E ancora, facendo solitarie escursioni lungo sentieri immersi oggi nel silenzio ma che la storia ha travolto con gli orrori della guerra. Lascio poi spazio senza vergogna alla mia emotività, aspettando tramonti struggenti seduto in qualche punto panoramico. Con un bicchiere di vino, ovvio.

Mi si potrà additare che è “facile” vivere così i luoghi quando non sono lontani da casa. Sento già qualcuno dire “Tanto lì ci puoi tornare quando vuoi!”. Ecco, anche questa visione del viaggio (oltre che stimolarmi una discreta orchite) trovo abbia dei limiti che necessariamente andrebbero superati. Fatemi capire… l’obiettivo di viaggiare in un luogo (soprattutto se remoto) è quello di vedere “il più possibile” di quel posto perché forse non ci torneremo?

Dlin dlon, forse meglio scendere dalla nuvoletta e rendersi conto che saluteremo questo mondo con molte, troppe cose che non avremo visto e sperimentato. Quindi basta con questa sindrome ansiogena che porta a sentirci perennemente, inesorabilmente “non arrivati”, insoddisfatti.

La vita mi ha permesso di visitare la California qualche anno fa. Un sogno, davvero. E non so quando mi ricapiterà. Mentre mettevo a fuoco l’itinerario, dopo qualche valutazione cartina alla mano ho fatto una scelta che benedico ancora oggi: mi sarei fermato due/tre notti minimo in ogni luogo. I giorni a disposizione non erano pochi, ma nemmeno tanti. Questo comportava l’inevitabile scelta di tagliare, accorciare, ridurre. Tutti verbi che quando sono accostati al viaggio, non si sa perché, fa sempre male sentire. E invece no, dritto per la mia strada.

Raccontando il viaggio al ritorno mi sono sentito spesso dire che avrei potuto vedere anche San Diego, o Palm Springs e il Joshua Tree. “Sei stato nello Yosemite ma non nel Sequoia?!” e ancora “Ma come, non sei andato a Las Vegas?! Dovevi solo varcare il confine con il Nevada, ce l’avresti fatta?!”. Già, ma io non volevo “farcela”. Non era quello lo scopo. Perché correre, perché alzare il ritmo sottraendo qualità in cambio di quantità?

E così ho dormito nei pressi del Mono Lake, perché non volevo solo scattarci una foto, ma desideravo esplorare i piccoli crateri circostanti per stare un po’ lì e vedere cosa si provasse in un tale scenario lunare. Ho fatto colazione sul lungomare di Santa Cruz la mattina dopo aver visto un concerto atteso per mesi.

Mi sono fermato tre giorni a Monterey, per andare a vedere le balene, camminare sognando la mia pensione (?) lungo le vie residenziali affacciate sul Pacifico e bermi dei caffè al parco. Poco distante Big Sur, località iconica per tutti coloro che hanno ereditato qualcosa dalla beat generation. Vuoi non sederti per ore ad ammirare il Bixby Canyon Bridge? Vuoi non esplorare l’entroterra, senza sapere in realtà cosa troverai? Una sera, alla fine del viaggio, mi sono ritrovato a girare in auto a vuoto tra Inglewood e Santa Monica. Nonostante il traffico mi sentivo coccolato.

Avevo rallentato, visto e fatto “meno cose”. Come potevo sentirmi così carico di strabordante euforia?

È ironico che alcune delle musiche e dei versi che mi hanno accompagnato lungo questa modesta rilettura siano furiosi e implacabili, così veloci da essere travolgenti. Le trovate nella playlist qui sotto. Ah quanto amo lasciarmi trasportare da questi inequivocabili contrasti. Chissà dove mi porteranno. Forse da nessuna parte.

“Lost the time to live. No time to take.
Caught in a cycle that won’t give you a break.
Tensions running high. I can see it in your eyes.
You call that success I call it a lie.
Slow down”

Slow Down – Youth of today