È una di quelle mattine in cui maledici di essere uscito la sera prima. Poderoso mal di testa a ricordarti quell’ultima fottuta birra che non avresti dovuto bere, ritardo clamoroso, non hai la minima idea di cosa infilarti per darti un’aria quantomeno presentabile al lavoro… Così apri l’armadio e li vedi lì, unico barlume di pseudo-sicurezza di questo difficile sabato mattina. Ne hai di ogni tipo, quelli consumati e sdruciti che sanno di vecchie avventure dalla dubbia moralità, quelli da 20 oz che stanno in piedi da soli da abbinare ai tuoi fidati Red Wing, quelli neri strappati per quando sei nel mood punk. E poi baggy, slim, corti, lunghi, vecchi, nuovi. Sono decine, ognuno con una storia da raccontare. Insomma, alla fine, in pieno hangover, butti su una camicia bianca, le sempiterne Stan Smith (ci stanno sempre, che tu debba affrontare una riunione di lavoro, una giornata nel bosco a tagliar legna o una session di pogate ad un concerto punk) e un paio di fidati Roy Rogers. E tutto sembra andare meglio.
Ha attraversato secoli, epoche, guerre e mode, ha vestito rudi cowboy e luridi meccanici, ha fasciato i culi sodi e perfetti delle top model in passerella su cui abbiamo perso decimi e decimi di vista da adolescenti. È sua maestà il denim.
Il jeans è promiscuo, bisessuale, anarchico… Se ne fotte se sei di destra o di sinistra, ricco o povero, donna o uomo, operaio o stilista di haute couture. Lui piace a tutti, lui va con tutti.

Con una punta di italico orgoglio si racconta che quel mix di fibre di lino e cotone intrecciate, utilizzato per vele e teloni, fosse esportato dalla nostra Genova verso i porti in Inghilterra e nei neonati Stati Uniti. E venisse chiamato, appunto, Blu di Genes. Erano gli schiavi neri che si spaccavano la schiena nelle piantagioni di cotone ad utilizzarlo per confezionare tute da lavoro e salopette, a ritmo di blues e woodoo. Quel tessuto grezzo e resistente, tinto con un pigmento ricavato dall’indigofera tinctoria (arbusto tipico dell’Africa occidentale dal quale si ricava, appunto, l’indaco) attirò l’attenzione anche di minatori e contadini che ne apprezzavano la resistenza e la comodità. Anche se il primo vero testimonial famoso fu un certo Giuseppe Garibaldi, che con una spregiudicata marketing strategy lo fece conoscere nei Due Mondi.

Ma è solo negli States, anno 1873, che grazie all’intuizione di Jacob Davis e alla sagacia commerciale di un certo Levi Strauss (sì proprio con lui il jeans inizia la sua storia commerciale e la produzione industriale). Galeotti furono i rivetti in rame nei punti critici, adottati per la prima volta dai due di cui sopra per aumentare la resistenza dei capi. Il jeans diventa così la divisa di ordinanza di cowboy, marinai, minatori e contadini, e si appresta a iniziare una storia che lo porterà fino ai giorni nostri.

La prima operazione di quella che oggi i marketer chiamano customer experience fu fatta durante la recessione degli Anni 30, quando gli agricoltori americani, per arrotondare, aprivano i ranch ai “turisti” benestanti delle città, che volevano sentirsi cowboy per un giorno e si portavano a casa i jeans come ricordo, contribuendo così alla diffusione del denim anche fuori dagli ambienti lavorativi.
Arrivano in un attimo i Fifties. Sono anni duri, difficili, il mondo si sta ancora leccando le ferite dopo la seconda guerra mondiale. Il rock è prossimo a vedere la sua alba, i cinema passano i film di Gary Cooper, Spencer Tracy e John Wayne, divi patinati, eroi perfetti Made in USA. Ma su tutto ciò sta per abbattersi un tornado. Per noi Wheelerz è come il big bang, è la genesi. È il 1953 e un giovane Marlon Brando interpreta il motociclista ribelle Johnny Strangler nel film Il Selvaggio (The wild one).
In quello che diventerà uno dei cult della filmografia motociclistica, Johnny incarna lo spirito più puro e grezzo del motociclista errante, un moderno fuorilegge che imperversa cavalcando una vecchia Triumph, indossando ignorantissimi jeans risvoltati e chiodo in pelle nera. Un mix irresistibile di violenza, libertà, sesso e rock’n’roll che sconvolge nell’intimità le donne e affascina gli uomini, dando origine alla figura mitologica del biker, mezzo uomo e mezza moto.
Da quel momento il jeans diventa negli anni l’indumento simbolo della ribellione, dell’anticonformismo, dello stile di vita rock. Dalla controcultura hippy alle marce per i diritti delle donne, dallo stile intramontabile di Steve McQueen ai jeans skinny delle rockstar air metal degli Anni 80. Alzi la mano chi non ha buttato più di un occhio sulla copertina di Born in the USA di Bruce Springsteen con i suoi Levi’s (nel frattempo Levi Strauss 2 soldi li ha fatti eh…) o chi non ricorda i 501, strappati come la sua anima, del grande Kurt Cobain e della generazione grunge.
Il jeans oggi è un prodotto di massa, la produzione sui telai a proiettile è industriale e su scala globale. Ne potete trovare di ogni tipo, colore, taglio e forma, ma vi do un consiglio: se volete un jeans che vi seguirà per tutta la vita e che, anzi, più invecchierà e più acquisterà fascino, spendete un po’ di più e prendetene un paio in denim giapponese cimosato o selvedge, prodotto su telai a navetta che lavorano per tessere il denim in un filo continuo, raggiungendo la fine del tessuto. Nel rifinire questa estremità, il telaio crea l’auto-bordo del denim, chiamato appunto cimosa.

E noi Wheelerz? A noi piace pensare di essere i diretti discendenti di Johnny Strangler, dunque non possiamo rinunciare a quel capo tanto stiloso, ma che non è stato sicuramente progettato per resistere ad una scivolata con i nostri metallici destrieri. A questo hanno pensato quei ragazzacci di PMJ, con la linea denim dedicata ai motociclisti attenti alla moda, ma esigenti in fatto di sicurezza. I pantaloni PMJ sono Made in Italy, frutto di anni di ricerca e test, e sfruttano l’abbinamento del denim con il Twaron, una fibra balistica che garantisce la massima traspirabilità e una protezione superiore a qualsiasi altra fibra aradimica, ovviamente certificata CE EN 13595-1:2002. Sono belli e resistono a tutto. Tranne agli sguardi.