Paesaggi e orizzonti lontani, albe e tramonti, distese d’acqua, di sabbia, d’erba, monti e vallate impervie, resti di civiltà antiche, animali visti solo in documentari di calde serate di mezza estate, strade polverose e dissestate. Questi sono stati giorni in cui le principali piazze del mondo socialmente interconnesso si sono colorate di luoghi straordinari, autentici sogni nel cassetto realizzati dopo mesi di sacrifici, pianificazioni frenetiche e un estenuante quanto lento countdown.

Caffè alla mano, americano ovviamente, trascorro qualche minuto ipnotizzato da questo caleidoscopio di bellezze (sempre con saturazione +12, vignettatura – 15 e ombre +20) dove ogni colpo di pollice è un sussulto oltre che un balzo di migliaia di chilometri in lungo e in largo per il globo. Guardo ciò che conoscenti o meno hanno voluto immortalare tentando vagamente di immedesimarmi, scruto i volti affaticati ma sorridenti, persi e sospesi nel cuore di un mondo che si sarà anche rimpicciolito, ma non per questo ha perso fascino e mistero.

Improvvisamente le mura della mia casa appaiono leggermente più piccole e opprimenti, il senso di tenue inadeguatezza si mischia al confortante sapore della caffeina e un barlume di dubbio inizia a prendere forma. Già perché qui non stiamo parlando di vacanze da cruciverba, bagnetto tre ore dopo i pasti e spritz sulla spiaggia come massima trasgressione. Quel format (peraltro assolutamente degno di rispetto) è ormai tenuto abilmente sotto copertura, o parzialmente filtrato, da calette fotografate dal ponte di una barca, da immersioni documentate con l’ultimo modello di action camera e slanci inspiegabili verso innovativi sport acquatici.

Qui ci si trova di fronte a viaggi verso destinazioni remote tanto quanto le culture che le permeano. E poco conta che si tratti di pacchetti con formula “discovery, under 35 e obbligo di cassa comune” o di avventure self-made. Il minimo comune denominatore resta pur sempre l’attrazione verso il “distante”, il “diverso”. Trovarsi lontani da quello che siamo nella vita di tutti i giorni, da quello che scorre passivamente davanti ai nostri occhi, dal personaggio che interpretiamo.

C’è una disperata ricerca di contesti che dal punto di vista visivo ed esperienziale ci allontanino dalla quotidianità che ci sentiamo addosso, per permetterci di recuperare un pezzo di noi che forse non conosciamo, non sappiamo mettere a fuoco e non è nemmeno detto che esista. Ma lo cerchiamo disperatamente: nella natura incontaminata, in contesti esotici e in scenari di dubbio comfort.

 

Bramiamo l’elettrizzante fascino del sentirsi scomodi e fuori luogo, perché funga da shock e risvegli qualcosa che speriamo sia sopito sotto la coltre glassata e luccicante del nostro io.

 

Vorremmo far emergere una volta ogni tanto questo lato più primordiale, istintivo, selvaggio, e alzarlo al cielo come un trofeo, per mostrare a noi stessi e agli altri che siamo anche così, anzi che forse è questa la nostra “vera” natura. Perché in fondo siamo angosciati dall’idea di essere rappresentati anche solo per un istante dalle nostre meravigliose e uniche banalità.

Un passo indietro e un paio di sorsi di caffè dopo, recupero la giusta lucidità e riparto dal dubbio.

Non mi sento al sicuro dalle affermazioni sovrastanti e sono inevitabilmente intriso di concetti quali la wilderness e il rapporto uomo-natura, che permeano la cultura occidentale da un paio di secoli abbondanti. Ma alla fine io come mi pongo di fronte a questa affannosa ricerca? E soprattutto, wild lo sono mai stato veramente?

Come spesso accade, per arrivare a delle conclusioni obiettive parto dai fatti, ripensando a quando mi sono ritrovato a viaggiare in un contesto “selvaggio” o quantomeno dominato da una natura libera di esprimersi al suo massimo potenziale. E sul perché abbia scelto proprio quelle mete.

Il mio first contact con gli States, ad esempio, sono stati le aspre coste del Maine e i boschi dipinti del New Hampshire invece che l’abbagliante e frenetica New York… Perché? Perché sento ancora sulla pelle quel groviglio di brividi innescato da chilometri e chilometri di niente in sella attraverso le sconfinate praterie del Montana? Perché quando punto a nord, tipo verso Scozia e Irlanda, cerco sempre e solo vento e colori intrisi di umidità? E per quale motivo tra poche settimane calcherò i remoti sentieri del Kumano Kodo, antica via spirituale giapponese tra le montagne delle penisola di Kii (in Giappone, ovviamente)?

A prima vista sembra proprio che nemmeno io sia esonerato dal cercare continuamente di perdermi in ambienti fatti di una natura multiforme, a volte accogliente e altre decisamente meno, capace sempre e comunque di sovrastarmi fino allo stordimento, scuotendomi e scatenando in me la riscoperta di primordiali emozioni e l’emergere di un’identità solo sopita.

Ok, ma sono certo che sia andata sempre così? La mente sa essere contorta e diabolica e indirizzare ricordi e pensieri dove vuole lei… Davvero ho messo da parte le inibizioni e il logorio della vita moderna (cit.), ho pareggiato i conti con la routine, ho respirato profondamente e lasciato fluire sensazioni a dir poco travolgenti SOLO in quei maestosi, meravigliosi e illuminanti contesti?

E allora quel breve giretto in moto di pochi giorni fa, dove il casco è diventato il migliore dei confessionali e la brezza entrata dalla visiera ha fatto divampare un incendio di sensazioni dirompenti? O quando ieri pomeriggio ho inforcato la e-bike per attraversare i campi dietro casa, con la musica che mi inondava le orecchie e un fiume liberatorio di pensieri si portava via i detriti di una giornata ostica? E ancora, perché in quest’estate i migliori momenti di selvaggia libertà emotiva li ho vissuti durante solitarie camminate notturne senza meta, lungo le strade dell’anonimo paese di provincia in cui abito?

Forse la scoperta e il ricongiungimento con il mio io-primordiale avviene più nella mente che non in determinati luoghi. Forse non ho mai avuto bisogno di un contesto estremo, poco confortevole, spigoloso e affascinante, per contrastare il me stesso ordinario, stereotipato e legato alla quotidianità. E forse è persino insidioso subordinare il fluire incontrollato delle emozioni più primitive e intense alla perpetua ricerca di un luogo dove non sentirsi quelli di tutti i giorni. È come ammettere di aver bisogno di ingannare la mente trasportandola in scenari alieni per poterla rianimare. Un’arma a doppio taglio che crea ancor più distacco, perché se il nostro essere wild è capace di emergere solo in ambiti remoti, lontani nello spazio e nello spirito, sembrerà sempre più inafferrabile, recluso in rari momenti pagati spesso a caro prezzo e vissuti con l’ansia di un qualcosa che non sarà facile rivivere. Uuuuuh quanto mi suona insoddisfacente…

Sia chiaro, ben vengano i viaggi esplorativi, avventurosi e fuori dalla propria zona di comfort. Se vissuti con la giusta “convergenza” tra cuore e mente possono alimentare uno straordinario percorso di crescita. Ma credo sia indispensabile tornare ad essere padroni della nostra sfera emotiva più recondita e ancestrale, lasciarla fluire senza un luogo remoto e sperduto a farne da unico ed eccezionale innesco.

Run wild Ecco che la capacità di sintesi della lingua anglosassone viene in soccorso riducendo in sette lettere quel concetto che è lo scorrere incontrollato delle emozioni, le quali devono affrontare ogni giorno un confronto impari con l’apatia che silenziosamente cerca di prendersi il meglio. Certe sensazioni vanno ricercate ostinatamente nell’immensamente piccolo e liberate, vissute fino in fondo in ogni piccola parentesi della nostra banalità quotidiana. Non lasciamo che il verbo diffuso dell’anywhere but here ci intristisca facendoci credere che il meglio sia appunto “ovunque tranne qui” e che il nostro indomato e indomabile spirito selvaggio possa emergere solo agli antipodi del nostro quotidiano.

Il caffè è tornato ad avere il giusto sapore. So che quello che accadrà lungo il Kumano Kodo sarà illuminante e sento già le good vibes di un’esperienza totalizzante. Ma intanto c’è un’altra summer night che mi aspetta all’orizzonte, il meteo prevede il ritorno del bel tempo e temperature ancora estive. Qualunque sarà il mio mezzo di trasporto, sarà ancora una volta un’occasione per lasciar fluire incontrollabili emozioni.

 

Mentre vivete con la mente la vostra prossima fuga, godetevi questa playlist. Poi vi lascio qualche dritta…

Volendo dare qualche coordinata in più sulle mie sconsiderate esperienze di viaggio, aggiungete alla vostra wishlist un “vagabondaggio” tra Maine e New Hampshire. Da Portland all’Acadia National Park la costa è un colpo di fulmine dietro l’altro, tra fari, deliziose atmosfere new england style e crostacei indimenticabili (visitmaine.com). Mentre nell’entroterra gli occhi si infiammano dei colori del foliage, tra le strade delle White Mountains e la quiete della regione di Laconia (visitnh.gov).

Tutt’altra natura quella del Montana, dove praterie a perdita d’occhio disegnano pattern ipnotici lungo strade infinite. Prima di entrare da est nei gloriosi scenari del Glacier National Park, isolatevi nel cuore del nulla al Bison Creek Ranch (bisoncreekranch.com) e passate la più indimenticabile delle nottate tra stargazing, bonfire e incontri metafisici con gli spiriti della Blackfeet Nation.

In Scozia invece, smaltite i tour nelle distillerie attrezzandovi per un campeggio illuminante lungo una o più tappe del West Highland Way (www.westhighlandway.org), un itinerario trekking immerso in un contesto semplicemente pazzesco. Tra i vari segmenti, regalate alla vostra anima il tratto da Kingshouse a Kinlochleven, salite sulla Devil’s Staircase e rendete omaggio alla vostra divinità preferita.

Il viaggio lungo la rete di sentieri del Kumano Kodo nasconde per me ancora la meraviglia dell’ignoto. Partite da qui (www.japan.travel/it/spot/979/), approfondite la storia spirituale del Giappone e lasciatevi guidare, come sempre, dalle vostre sensazioni più ancestrali.