Quando il rodeo è metafora di vita, non c’è cowboy che superi Volodymyr Zelenskyj. Pensateci: un comico televisivo che produce e interpreta la serie “Servitore del popolo”, nella quale è un professore che si ritrova eletto Presidente dell’Ucraina per caso, grazie a un video virale su Youtube in cui critica la corruzione dilagante. Poi, a nemmeno 40 anni, sublima la fiction diventando davvero il Presidente dell’Ucraina proprio grazie alla sua enorme popolarità televisiva, per affrontare il momento più drammatico della giovane Repubblica. Un numero d’alta acrobazia antipolitica che neanche in Italia. Ma di lui potete leggere meglio altrove.

Wheelz si muove su gomma, un mondo a parte dove pure i cowboy non mancano. Pensi al rodeo e ti viene in mente una MotoGP che riacquista grip senza preavviso, imbizzarrisce e disarciona il suo pilota con un highside. Pericoloso e spettacolare, ma non è questo il punto: un gran premio lo associamo più a una corsa di galoppo, in cui il purosangue e il fantino si fondono in una plastica e meravigliosa rappresentazione della velocità. No, no. La vera traduzione su ruote della sfida dell’uomo all’esplosività primordiale del cavallo, animale o vapore, è un’altra.

 

Ed è genuinamente americana come il flat track, l’hillclimbing e l’effetto WOW.

 

È il drag racing che riassume e detona in pochi secondi la ricerca del limite personale e del proprio mezzo; la vocazione al disastro, il tentativo di domare l’indomabile, di gestire l’imprevedibile. La lotta intensa e muscolare contro la Bestia. Che abbia quattro zampe o quattro ruote, le corna o un manubrio, in fondo è un dettaglio. Il rodeo e il drag racing sono gli ultimi corral della civiltà pre-digitale. Sono tanta roba vera.

Sport basici e fuorimoda, in cui il fegato e il compressore contano più dei microchip. Il vero tratto che li unisce è il coraggio di fissare negli occhi la paura e di affrontarla nel tempo in cui un bipede ordinario mette un like sui social. Secondi: otto è la distanza che da sempre definisce il rodeo, il tempo di resistenza in sella.

Un dragster sovralimentato può spaccare il quarto di miglio nella metà del tempo, con un’accelerazione superiore a quella di una Formula 1 e di un aeroplano al decollo. Per un Top Fuel, la categoria più potente, il record del mondo di velocità in uscita sul quarto di miglio è di 540 km/h. Il cronometro si inchioda su 3.6 secondi, con accelerazione superiore ai 5 G.

Cowboy e drag racer vivono bruciando la candela su entrambe le estremità. Sono figure leggendarie e romantiche, ai margini della razionalità e del buonsenso. Solitarie, ma legate dal machismo crepuscolare e da un profondo senso di cameratismo.

Per spiegarmi la loro psicologia, anzi no, l’anima, anni fa mi dissero di come un pilota fosse arrivato a giocarsi il titolo europeo in un lancio secco, ma con il motore rotto. L’unico che disponeva del pezzo di ricambio era l’altro finalista, che glielo concesse per offrire a entrambi l’opportunità di confrontarsi in un ultimo duello. Indovinate chi vinse? Alla faccia dei ricorsi, la sera finì con una bevuta memorabile di distillati che potevano tranquillamente rinvenire i loro motori.

Un episodio tipico di quando girano pochi soldi, che solo certi poeti dell’amicizia virile come John Ford o Sergio Leone avrebbero saputo raccontare. Quando al bar incontrate un uomo così, offritegli da bere senza tante storie. Se l’è certamente sudato freddo, quel bicchiere.

Cowboy e drag racer appartengono a una razza che probabilmente si riproduce per partenogenesi. I primi, per le pacche spaventose che los huevos prendono in sella nonostante l’imbottitura, per i voli da cavallo e le incornate dei tori impazziti di terrore. I secondi, per la pericolosità degli ordigni esplosivi che montano, alimentati ad alcool, benzina avio, nitrometano ed etanolo.

Fino al 1974, il dragster più tipico era lo slingshot (fionda), un trabiccolo autocostruito lunghissimo e sottile come una Muratti, con due ruotine a raggi da chopper all’anteriore e un mostruoso sei/otto cilindri sovralimentato montato pochi centimetri davanti al pilota, che in caso di esplosione se lo prendeva in piena faccia. Poi c’erano i dragster spinti dai reattori dei jet, altrettanto predisposti al decollo verso le dragstrip celesti, ma perlomeno quelli stavano dietro.

Mi accorgo di scrivere al maschile, più che altro per forza dell’abitudine. Così come il rodeo per le cowgirl, anche la storia dei dragster annovera diverse femmine di ferro – ma non chiamatele drag queen – che i bigodini li mettevano sullo stomaco. È che l’accelerazione pura fa così american macho, che persino l’US Army, i Marines e l’Aviazione americana si sono sentiti in dovere di schierare i propri team negli US Nationals.

A un dato momento, nel 2005, Harley-Davidson ne costruì uno in serie limitata per dare vita a una classe tutta sua. Il nome era una garanzia: VRXSC Sreamin’ Eagle V-Rod Destroyer. Il Distruttore era dotato di wheelie-bar antiribaltamento e bicilindrico da 1.300 cc anabolizzato. La compressione di 14,5:1 consentiva di raggiungere la velocità d’uscita di 250 km/h sui quattrocento metri generando una forza d’accelerazione di 2G. Ed era stock: chiunque lo poteva acquistare. Un paio finirono in Italia, alla Numero Uno di Milano e a H-D Bolzano.

Un giorno decisero di invitare i giornalisti a provarlo. Finii per ritrovarmi in un gruppetto di incoscienti con famiglia a carico su una pista laterale dell’aeroporto militare di Ghedi. Davanti all’albero di Natale, il semaforo dei dragster, cercavamo di tranquillizzarci a vicenda: in fondo è una Harley… Il lancio di esempio fu affidato a Riccardo Giliberto, bicampione europeo nella Super Twin Top Gas. Poche parole, espressione seria: gli mancavano solo lo Stetson, il bandana e le frange sulla tuta. Dopo il burn-out di rito, partì come un elastico tirato al massimo. Il gommone posteriore era diventato la coda di un gigantesco serpente a sonagli, che ondeggiava a destra e sinistra. Una vista terrificante.

“Allora chi è il primo?”, sogghignava il capotecnico Alberto Poggi canticchiando il tema dello “Squalo”: dum-dum dum-dum dum-dum… Silenzio, sguardi vaghi. Quando toccò a me, andò per benino: luci gialle e via, tutto aperto prima ancora di vedere il verde.

 

Ciò che provai fu semplicemente esilarante. Mi ritrovai a ridere istericamente nel casco, con le endorfine che esplodevano come popcorn e la sensazione del decollo nella pancia.

 

Pochi secondi dopo, il coito meccanico era già finito. Senza la tristezza del post: anche se la vita offre ben altre possibilità di farlo, avevo misurato il mio coraggio.

“I’d rather ride on a Mustang, than in one”, dicono i cowboy. Alla fine, il rodeo della vita sta tutto qua: è meglio cavalcare un Mustang, che sedersi a guidarne una.