“Vedevo solo arancione: ho pensato a Lauda”. Come non capirlo, Romain Grosjean. Le fiamme che lambivano la sua Haas VF-20 al GP del Bahrain del novembre 2021 hanno lasciato con gli occhi sbarrati milioni di spettatori, attraverso la gelida intangibilità dell’ultra HD. A malapena era arrivato il colore nei tubi catodici quando Niki Lauda bruciava vivo nella sua Ferrari 312 T2, dopo il famigerato incidente al Bergwerk del vecchio Nürbürgring.

Eppure la violenza ustionante delle fiamme resta la stessa, radicata fra le paure più istintive e primordiali dell’uomo. Non sono belle storie, quelle che state per leggere. Qualcuna ha un lieto fine – lo stesso Lauda riprenderà a correre e a vincere, pur parzialmente sfigurato. Però, prima dell’esaltazione tascabile da social media e dell’abuso dell’aggettivazione mitizzante, queste storie di flames ci servono a ricordare cosa sono state le corse e come non sono più, almeno sotto la sinistra evocazione gladiatoria del morituri te salutant.

Nelle interviste ai piloti sopravvissuti all’epopea analogica del Motorsport, a domanda su cosa temessero di più, un venti per cento delle risposte riguardano la menomazione permanente, che avrebbe impedito loro di tornare a guidare – quindi a vivere davvero. Per il resto: il fuoco. Non c’è morte più orribile, lenta, straziante, chiusi nell’abitacolo di un’auto da corsa. Meglio, forse, volarsene via in uno schianto.

Le fiamme erano uno dei pericoli con i quali i piloti, i meccanici e i commissari di pista convivevano e lottavano più spesso, in caso di incidente. E non era questione di sfortuna: le macchine si incendiavano con facilità, senza i serbatoi e i condotti della benzina protetti. Finendo contro un guard rail – vie di fuga? quali vie di fuga? a Monza c’erano gli alberi in pieno curvone… – spesso la vettura si spezzava e con i serbatoi ai lati sbocciava la palla di fuoco, come per Grosjean.

Dopo il botto, il primo rumore che risvegliava la lucidità del pilota era il ronzio della pompa elettrica che inondava il rottame di carburante. Staccarla, subito, prima che… A volte però non era sufficiente. Lauda, si diceva. Chi è troppo giovane per ricordarsi l’incidente, sappia che Ron Howard l’ha ricostruito con spettacolarità nel film Rush. L’austriaco guida nervoso, in recupero forzato sui primi. Una chiazza d’umido lo fa sbandare, il muso picchia contro la roccia (la roccia!), la Rossa è avvolta dalle fiamme. Non basta: la tamponano le monoposto di Harald Hertl e Brett Lunger. Il campione è intrappolato, svenuto: a salvarlo è Arturo Merzario.

Dopo 42 giorni, il pilota Ferrari si ripresenta ai box di Monza, in un casco di dolore.

Lauda non è il primo araldo del Cavallino a bruciare. Il 7 maggio 1967, Lorenzo Bandini è altrettanto agguerrito e assai più amato di lui. Perché italiano ed ex meccanico, assurto al soglio più sacro del Motorsport: il sedile di una Ferrari da F1. Al GP di Montecarlo sta inseguendo Denis Hulme quando, alla chicane del porto, si ribalta e intorno a lui sono fuoco e fiamme. I soccorritori, scarsi e male addestrati. Gli altri piloti continuano a sfrecciare, insensibili, mentre lui brucia sotto la carcassa rovesciata. Il collega Giancarlo Baghetti e – incredibile solo a pensarlo – Juan Carlos di Borbone scavalcano le barriere e si fiondano in pista per avvisare i commissari, convinti che fosse volato in acqua. Magari. A peggiorare le cose, la corrente ascensionale provocata dall’elicottero che indugia sopra il rogo, alimentandolo. Dopo minuti lunghi come anni, Bandini è trascinato via come un sacco di patate annerito, una scena orribile. Un paletto gli si è piantato nella milza, ha ustioni sul 60 per cento del corpo: morirà dopo tre giorni di agonia, senza mai riprendere conoscenza.

Purtroppo il 1967 è un anno di fuoco anche in Formula 3, un corral per veri purosangue. Autentici duri come l’inglese Boley Pittard, che un mese dopo Bandini muore a Monza per l’incendio della sua Lola. Sulla griglia di partenza, forse per il serbatoio rabboccato in eccesso, o fissato male, un po’ di benzina cade sul motore caldo e prende fuoco come una bomba al Napalm. Pittard ha la prontezza di spirito di parcheggiare la Lola a bordo pista, gesto nobile e fatale: muore la sera in seguito alle ustioni.

Cose che capitavano e sarebbero capitate anche sulle monoposto più tecnologiche durante il pit stop. Una settimana dopo i giornali stampano le immagini shock dell’auto in fiamme di Geki Russo, nella carambola che provoca tre morti (fra i quali lo stesso Geki) al GP sullo stradale di Caserta.

Il problema non sta solo nella scarsa sicurezza dei circuiti e nelle insidie della meccanica: nessuno indossa la tuta ignifuga. Come tanti, Pittard ne porta una in Nylon, che s’incolla alla pelle alle alte temperature. La crosta biochimica che ne consegue impedisce la traspirazione causando l’intossicazione del sangue. Ma attenzione, persino le prime tute ignifughe riescono a uccidere: a distanza. È ciò che accade a Steve McQueen: il mesotelioma incurabile che lo stronca ad appena 50 anni è provocato anche dall’esposizione all’asbesto che isola la sua tuta da corsa.

Di nuovo Formula 1. Gran Premio d’Olanda, Zandvoort, 1973. La March 731 in livrea STP di Roger Williamson si ribalta e prende subito fuoco. Anziché paralizzare il Circus, i marshal sventolano le bandiere sbagliate, gialle, agli altri piloti. Solo uno interviene con un estintore ridicolo, insufficiente a domare le fiamme, alimentate dal forte vento e dal passaggio delle altre monoposto. L’inglese David Purley arresta la sua March e tenta in tutti i modi di rovesciare la monoposto del collega. I commissari lo allontanano. Addirittura, la polizia ricaccia al di là dei guard-rail i coraggiosi spettatori che accorrono a soccorrere Williamson mentre brucia incastrato nell’abitacolo. Come Bandini: gli anni e l’esperienza sono serviti a nulla. La bandiera rossa e i pompieri arrivano solo dopo minuti interminabili. Lo show va avanti, il corpo di Williamson è estratto solo a corsa finita.

Il 13 giugno 1982 il destino bussa alla Osella di Riccardo Paletti, sul rettilineo di Montreal al GP del Canada. I commissari fanno confusione nel segnalare la Ferrari di Didier Pironi bloccata in mezzo alla pista, Paletti la tampona incolpevolmente, la benzina fuoriuscita dal serbatoio provoca un incendio spaventoso. Gli steward svuotano gli estintori sulla Osella senza pensare a estrarre il giovane pilota lombardo, che a 23 anni si spegne per le inalazioni delle sostanze estinguenti. Un tragico paradosso, anche semantico.

Sette anni dopo, a Imola, la Ferrari di Gerhard Berger è avvolta dalle fiamme ancora prima di andare a sbattere al Tamburello per un guasto allo sterzo. Stavolta siamo in Italia, per fortuna: i “leoni della CEA”, i famosi operatori antincendio,  le domano in 23 secondi. Berger è salvo, nonostante le ustioni alle mani.

L’anno dopo è il padre dell’attuale tricampione del mondo di F1, Jos Verstappen, a diventare il protagonista di un fotografatissimo incidente con il fuoco. A Hockenheim, Verstappen rientra ai box per il pieno, il bocchettone a pressione non s’incastra, una spruzzata di carburante finisce sugli scarichi roventi. È come se esplodesse un cocktail Molotov. Le lingue di fuoco terrorizzano gli spettatori, mentre l’intervento degli addetti limita i danni a qualche ustione e un principio d’intossicazione per Verstappen e i meccanici del box Benetton.

Lo stesso episodio accade a Eddie Irvine a Spa-Francorchamps nel ’95 quando gli schizzi di benzina finiscono sul retrotreno della sua Jordan-Peugeot. La velocità dei meccanici, sommata all’efficacia del casco e della tuta ignifuga, fanno il loro lavoro, ma le immagini di Irvine avvolto dalle fiamme come uno stuntman fanno impressione.

Nel 2003 un altro pasticcio ai box provoca un principio di incendio sulla Ferrari di Michael Schumacher.

Sono una brutta bestia, le fiamme. Fanno paura solo a vederle. Sono artigli che bruciano la pelle, soffocano il respiro, accecano gli occhi, annichiliscono di cupe vampe. Però sono ancora più pericolose quando non si vedono, come nel caso del metanolo, il carburante che alimentava le Indycar e ancora oggi è utilizzato nel drag racing. Quando brucia, il metanolo provoca fiamme invisibili e dolorosissime: la vista di un pilota che si agita e si rotola a bordo pista senza ragione apparente è ancora più destabilizzante.

Fiamme della passione, correre a fuoco… Qualche volta, è meglio trovare espressioni più felici.