I gentiluomini Wheelerz sanno già che a una donna ci si rivolge educatamente con l’appellativo di signora. E all’auto? Nel dubbio, datele del lei. Può sembrare oziosa, ma già nella prima metà del secolo dell’automobile, la distinzione tra maschile e femminile costituiva un problema per gli uffici vendite, soprattutto quelli di Detroit. L’inglese non aiuta: nella lingua di George Byron e di Jeremy Clarkson, il termine “car” non ammette genere. Salvo rendersi conto che, anziché “type” o un’arida sigla alfanumerica, il nome di battesimo, ancora meglio se riferito alla sfera femminile, colpiva di più la fantasia del potenziale cliente. Creando al tempo stesso un legame emotivo immediato con il prodotto. In fondo, in una metafora sessuale comunemente accettata e condivisa soprattutto quando gli automobilisti erano quasi solo uomini, nel corpo macchina si entra. A volte per trascorrervi più tempo che in compagnia della moglie. La donna è (auto)mobile: macchina come talamo, come personificazione meccanica della compagna di vita. O dell’amante, pronta a scaldarsi e fornire eccitazione con poche, sapienti sollecitazioni.

Forse anche per questo, gli Italiani ci erano arrivati prima degli altri. Contrariamente a quanto si possa pensare, però, il nome della più famosa “lei” a quattro ruote, un’Alfa Romeo, è attribuito a una madame francese, Giorgia De Cousandier. Sposata al “poeta ingegnere” Leonardo Sinisgalli, consulente pubblicitario per Finmeccanica, un giorno a Parigi raggiunse il marito in un café di boulevard des Capucines. Trovandolo circondato da emissari del Portello, esclamò: “Otto Romei e neanche una Giulietta!”. Era il nome perfetto per la nuova, dinamica fidanzata d’Italia del boom, coniugata in versione coupé, spider e berlina. Funzionò così bene che, oltre mezzo secolo dopo, nel 2010 Uma Thurman recitava nello spot della riedizione: “Io sono Giulietta e sono fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni”. La seduzione onomastica della sorella Giulia è forse meno conturbante, ma più avvolgente, rassicurante e berlinosa. E comunque non ha mancato di movimentare il ménage degli italiani in versione GT.
La Fiat vallettiana si limitò a osare Samantha per una fuoriserie in cento esemplari sul pianale della 125, costruita da Vignale. Mentre a Mirafiori continuavano imperterriti con i numeri, Lancia passò dalle eleganti lettere dell’alfabeto greco alla maestà latineggiante di Aurelia, Flaminia, Flavia e Fulvia. Non per altro: erano le antiche vie consolari romane. Tuttavia quei nomi esprimevano con successo la signorilità e la raffinatezza delle vetture torinesi. Più oltre si era spinta Citroën, fino al punto di trasfigurare nell’empireo la femminea beltà della DS, sigla di Désirée Spéciale, pronuncia Déesse. Dea, nientemeno. Con l’aggiunta di Pallas (Pallade), epiteto di Atena. Invece la sorella protettrice delle donne battezzò l’utilitaria Dyane, progettata in collaborazione con alcuni ingegneri della Panhard, Casa francese assorbita dal gruppo Citroën.
Più prosaicamente, si pensa che Dyane sia l’anagramma, più la lettera “e”, dei vecchi modelli Panhard Dyna. In Renault hanno scelto il “cherchez la femme” per due citycar molto apprezzate dalle donne: la prima negli anni 80 con l’elegantissima denominazione Clio. Quindi Zoe, alternativo e new hippy, per la supposta sera “green”. Il più poetico dei battesimi – di nuovo italiano – l’ha ricevuto l’inglese Lotus Elise. In origine, la roadster doveva chiamarsi Type 111, pronuncia One-Eleven, omaggio spirituale alla Lotus Eleven del 1956. Senonché, giusto poche settimane prima della presentazione alla stampa, il proprietario Romano Artioli impose il nome Elise anglicizzando quello della nipote Elisa. Un’intuizione felicissima: condiviso da una bambina giocosa, Elise contribuì a renderla famosa nel mondo. Ancora oggi, Elisa Artioli ne è la testimonial più bella e naturale: l’ultima delle 35.124 costruite è andata proprio a lei. Non un’auto, ma addirittura un marchio – e che marchio – è intitolato a una figlia. All’anagrafe risultava Adriana Manuela Ramona, ma nella famiglia di Emil Jellinek, console austro-ungarico a Nizza, la chiamavano tutti Mercedes. Jellinek impose il nome dell’adorata terzogenita, allora tredicenne, come condizione inappellabile per entrare in società con Paul, il rampollo dei Daimler.

Ah, la poesia della Mitteleuropa. Entrata in vigore la partnership con Volkswagen, la ceca Škoda ha effeminato la sua gamma nel 1994 recuperando il nome Felicia dagli Anni 60, quando indicava una popolare convertibile due posti. Una Duetto cecoslovacca, insomma. Sono seguite la hatchback Fabia e la berlina tre volumi Octavia, che però in India si chiama Laura. Felicia, Fabia, Octavia evocano in qualche modo un’affidabile familiarità. Nomi sui quali si può contare, senonché fanno un po’ vecchia zia con le tende a merletto. Tipo: “A Natale ricordati di invitare anche la zia Felicia”, o “ha chiamato la zia Octavia, dice che ha perso di nuovo la dentiera”. Di Fabia, mai conosciute. E neanche di Zafira, se è per questo, ma è facile rimediare: è un nome arabo che evoca il successo ed è stato beneaugurante per la vendutissima monovolume della Opel.

All’inseguimento dello stile di vita occidentale, in Giappone hanno spesso optato per nomi italiani di sicuro fascino: Silvia fu utilizzato per la prima volta dalla Nissan nel 1964 per una coupé costruita a mano. Chi è uscito con quella di quinta generazione, una fanatica del drifing a trazione posteriore, si è parecchio divertito. Serena si è aggiunta negli anni 90: essendo una monovolume destinata alla famiglia, alla Nissan pensarono a un nome che evocasse la pace domestica. La Toyota è Carina, però deve il nome alla costellazione della Nave Argo. Cuore fa rima con amore, ma non alla Daihatsu dove scelsero Mira per affiancare il primo nome – piuttosto estemporaneo – della longeva keicar, oggi alla sua nona generazione.

Ecco, se in questi tempi di suscettibilità social e politically tedious si vuole proprio individuare un bersaglio misogino, forse si potrebbero tirare le orecchie alla Ford. Che nel 1968 presentò la sua coupé sportiva con l’incauto nome di Escort. Sarà stato per le “Superprestazioni” garantite dall’omonimo kit sportivo della versione GT, ma come direbbe il presidente del Monza, con una bisarca di quelle sai che Fiesta!