Tutto ciò che è generativo, tendenzialmente mi piace. Mi piace la parola “generare” perché comporta portare alla luce qualcosa che prima non c’era. O era altro. Mi piace il concetto, perché presuppone un atto prima creativo e poi produttivo, più o meno diretto, più o meno ispirato, ma comunque un’azione. E ancor di più, adoro che l’idea o l’oggetto neonati suscitino una reazione. Non si tratta del buon vecchio detto marketing oriented “che piaccia o non piaccia, l’importante è che se ne parli”. Ohhh, no. Mi riferisco a qualcosa di decisamente più primitivo e primordiale: stupore, interesse, curiosità. E sì, anche fastidio o disturbo, perché anche in questi casi c’è in ballo l’attenzione. Che viene allertata, sollecitata, richiamata all’ordine. E cresce. Fino a rendere quell’oggetto o quell’idea qualcosa di noto e immediatamente riconoscibile. Un’icona, insomma.

Ma cos’è un’icona? È un’immagine, una silhouette senza tempo, un evergreen che diventa realtà di culto per la sua capacità di racchiudere in sé originalità e innovazione. Sono tutti quegli oggetti che rimangono per sempre nella memoria collettiva. Ma fermiamoci qui, solo per un attimo. Come fa un oggetto di moda o di design a diventare un’icona? Esiste una ricetta a monte dell’atto creativo? Insomma, come si fa a dare vita a qualcosa con la certezza che entri di diritto nella storia? Icone si nasce o si diventa?

Dunque, diciamo che per voi ho una notizia buona e una cattiva: quella cattiva è che una ricetta non esiste. E quella buona è che una ricetta non esiste. Pensateci un secondo e seguitemi in questo paragone: quando uno chef stellato decide di stupire, di sconvolgere e stravolgere i palati, di creare qualcosa che lo collochi nel gotha delle cucine più prestigiose del globo, pensate abbia più bisogno di una ricetta preconfezionata o di un mix di libertà creativa, cultura, know how tecnico, intuizione e coraggio?

Nella moda così come nel design vale lo stesso paradigma: non si ha mai la certezza di creare qualcosa che resti. Però ci sono presupposti che possono far ben sperare. Alcuni concept nascono rivoluzionari, fuori schema. Infrangono le regole dettandone di nuove, spesso senza nemmeno dichiararlo, arrivando così a identificare epoche a segnare punti di svolta stilistici in grado di influenzare per decadi le tendenze a venire.

I trend catcher più in gamba, quelli con più fiuto, se ne accorgono subito di quel piccolo filamento di DNA che fa la differenza tra un concept “strano” e uno iconico. Un’icona non anticipa troppo i tempi e non arriva in ritardo: sa stare nel tempo. Il che significa rispondere alle esigenze del presente, anticipando i gusti e i bisogni del futuro. Un’icona sa entrare nell’immaginario collettivo, ma anche nel cuore: provate, nel tempo, a separarvi dalla lampada di Flos che avete trovato dopo lunga caccia, dalla vostra prima Baguette di Fendi o da un’infinitamente desiderata 911, se ci riuscite.

Insomma, una poltrona, una scarpa, uno scooter o qualunque altro oggetto in grado di diventare iconico non è semplicemente catalogabile come oggetto bello o singolare: rappresenta anche uno stile di vita, un modo d’essere, l’appartenenza a una tribù che sa guardare avanti. O che ha saputo farlo in passato.

Gli oggetti non sono solo oggetti. Sono anche e soprattutto ciò che rappresentano. È questo che fanno moda e design: li portano a un livello superiore e simbolico. È arte applicata volta a superare lo scopo per cui quell’oggetto è utile. Un po’ come un mezzo a due ruote elettrico la cui silhouette sembra una freccia puntata verso il futuro: è uno scooter e non inquina, certo. Ma non lo si acquista ovviamente solo per questo… Personalmente, credo che il progetto CE 04 di casa BMW Motorrad si posizioni esattamente qui.

Quindi come la mettiamo?

Bè, facciamo così: un’icona può diventare tale per necessità, per estro creativo o perché è talmente desiderata da diventare tale di default.

L’esigenza è sicuramente un drive importante nella nascita di un’icona. Alcuni degli oggetti più rappresentativi delle maison di moda (quelli che li vedi e sai immediatamente da dove provengono anche coprendo il logo, insomma) sono stati creati specificatamente per risolvere un problema o far fronte a un’esigenza.

Un esempio? Le scarpe bicolor di Chanel, quelle con il cinturino dietro il tallone, che in gergo si chiamano slingback. Madame Coco (Chanel, appunto) aveva percepito nel suo pubblico femmiline il desiderio di sembrare più alte e, pensando a modelli e tagli che slanciassero la figura, ebbe l’idea: una scarpa beige nella parte alta per allungare otticamente la gamba e nera sulla punta, per accorciare il piede. Era il 1957. Vi garantisco che da quando Carl Lagerfeld le riportò in vita circa 30 anni dopo, non c’è fashionista che non ne possieda (o ne desideri ardentemente) un paio. 

Analoga genesi quella di una delle borse più famose della storia, la Birkin di Hermés. È il 1983 e siamo su un volo da Parigi a Londra. Il destino, che spesso ci vede benissimo, vuole che l’indimenticabile Jane Birkin e Jean-Louis Dumas, CEO di Hermés, fossero seduti l’uno accanto all’altra. Senza sapere chi fosse, Jane iniziò a chiacchierare lamentandosi dell’impossibilità di trovare una borsa adatta per il weekend. Lui la lasciò parlare, domandandole nello specifico quali caratteristiche avrebbe dovuto avere un oggetto simile per andare incontro alle sue esigenze. E insomma, passarono giusto un paio di settimane e Jane ricevette a casa l’insperato oggetto del desiderio. Che non era effettivamente solo perfetta per il finesettimana: diventò anche la bag di lusso più famosa al mondo.

Ma il caso forse ancor più eclatante risale al 1993. Siamo sulla passerella di Issey Miyake e quella che sta sfilando si chiama Pleats Please. È una collezione realizzata interamente in un particolare tessuto plissé le cui pieghe ravvicinate, grazie a un particolare processo di produzione, non perdono mai la forma. L’effetto fisarmonica dei capi fa sì che possano essere stressati, strizzati, chiusi in valigia per giorni o buttati nell’armadio gli uni sugli altri, per essere indossati subito dopo, ed essere perfetti. E se non è un desiderio questo…

Ma anche estro e arte sono due parole chiave quando si parla delle caratteristiche che possono portare un oggetto a diventare iconico. Prendete le Armadillo Shoes di Alexander Mc Queen (non ditemi che non le avete presente, è impossibile. Sono quelle indossate da Lady Gaga nel video, altrettanto iconico, di Bad Romance): assurde, certamente esuberanti e parecchio disturbanti. L’ispirazione viene dall’immaginario dei film di fantascienza: siamo nel 2010 e pellicole come Alien, Predator o The Abyss sono ancora ben stampate nella memoria di una generazione affascinata da tutto ciò che sa di altri mondi o di postapocalittico. Bene, quelle scarpe deliranti, provocatorie e “aliene” hanno rappresentato un vero punto di svolta per il settore.

Un po’ come la produzione di Thierry Mugler, che negli Anni 90 ha dato vita ad alcuni dei look più iconici dell’industria della moda giocando su un equilibrio perfetto tra eccentricità, sensualità e provocazione. Anche in questo caso, non ditemi che non ricordate il video di Too Funky del 1992 in cui un George Michael, mimetizzato dietro la macchina da presa, immortala le supertop dell’epoca (Linda Evangelista, Tyra Banks ed Eva Herzigova, tanto per citarne alcune) avvolte dal latex, dal metallo e dalle assurde silhouette a metà tra supereroine e cartoons, disegnate per loro proprio da Mugler. Dai, il Motorcycle Bustier ve lo ricordate sicuramente!

E facendo un altro passo indietro, possiamo arrivare agli Anni 30 e all’incredibile periodo di Elsa Schiaparelli. Acerrima nemica di Coco Chanel e prima stilista a finire sulla copertina di Time, stiamo parlando della donna, anzi della nobildonna, che ha inventato il rosa shocking ispirandosi a un colore usato nella pittura da Christian Bérard. La donna che ha portato il surrealismo di Dalì nella moda realizzando i guanti con le unghie rosse e il cappello-scarpa. Colei che ha provocato (all’epoca!!!) con dettagli anatomici disegnati sulla stoffa e con abiti scultura disegnati sul corpo femminile. Elsa Schiaparelli ha fatto della stravaganza una cifra stilistica inconfondibile che ancora oggi influenza anche le influencer…

E infine sì, può succedere che siano gli altri a decretare cosa sia iconico e cosa no. In questo caso, l’oggetto è una sorta di tela bianca sulla quale inventare, ricreare, proporre e ridisegnare concetti e forme, stili ed epoche, mode e modi. Prendete la sahariana di Yves Saint Laurent: lui la disegnò e la fece sfilare per la prima volta nel 1967. Per crearla prese spunto dalla divisa dell’esercito francese di stanza in Algeria. La loro era la tipica giacca da campo, tipo la M65 americana. Ecco, lo stilista la vide, ne rimase affascinato, con un abile e geniale gioco sartoriale dei suoi, la alleggerì, rendendola perfetta per esaltare il corpo femminile. Da quel momento in avanti, praticamente tutti l’hanno ripresa, trasformandola e customizzandola a seconda del periodo storico.

E vogliamo parlare del trench più classico di sempre, quello di Burberry? A parte poterlo acquistare anche in Minecraft, si si, proprio il videogame al quale giocano i vostri figli, lo ritroviamo in una serie di collab con i brand più amati dalla Gen Z, come Supreme (su dai, questo lo conoscete per forza), Pop Trading Company, Liberty London e Converse, pronto ad essere preso, reinterpretato, colorato e reinventato, ma mai stravolto.

E chiuderei questo excursus con la borsa più incline in assoluto a prestarsi a esercizi creativi, la Baguette di Fendi. La sua “mamma” originale è Silvia Venturini Fendi, che nel 1997 l’ha fatta debuttare sulle passerelle della maison, ma da allora è stata davvero la tela perfetta per creare e ricreare. È stata proposta in denim, paillettes, in pelliccia, ricamata, dipinta a mano e persino profumata, rimanendo però sempre sé stessa. Insomma, forse non è del tutto casuale che Sarah Jessica Parker – Carrie Bradshaw in Sex and the City ne andasse letteralmente pazza. E noi con lei.