Sette auto (più una moto) incomprese
“La vita è l’espressione di una capacità creativa che l’uomo intende e modella a somiglianza di sé, del suo essere, del suo sentimento, del suo pensare, del suo modo di agire”.
L’edificante citazione è tratta dal libro “Incompreso”, scritto dall’inglese Florence Montgomery nel 1869. Talmente patetico, da far sembrare il “Cuore” lo speciale di Topolino. Incautamente pubblicato come romanzo per bambini, ha inoculato la depressione a svariate generazioni di piccoli italiani. Ma attenzione: sostituendo la parola “vita” con “auto”, otterrete una metafora delle buone intenzioni con le quali le quattro ruote sono progettate e proposte al pubblico. Al pari di noi umani, tutto ciò che vogliono è amore. Il caldo abbraccio di un garage e le attenzioni dell’utente finale che la sorte ha riservato loro.
Non per tutte finisce così.
A volte, le giovani automobili che si affacciano con entusiasmo al mercato sono schifate, derise. Non importa da quale Casa, in quale decennio o contesto geopolitico siano state concepite: ogni grande famiglia ha avuto e continua ad avere la sua Incompresa. Ecco le nostre povere, magnifiche sette. Più un’intrusa a due ruote. No, non ci troverete una Fiat. Troppo facile. Le varie 127, Duna e nuova Multipla occupano già stabilmente le top ten delle dieci auto più discutibili sulle quali presentarsi a qualsiasi appuntamento, che non sia quello con l’Agenzia delle entrate. Molte altre potrebbero essere incluse: la celebre Tucker 48 per prima, affossata da una disinvolta politica di vendita e dalle “Big Three” di Detroit.
In ogni caso, non angustiatevi. Magari dopo tanti anni, il lieto fine giunge per tutte. Il tempo è galantuomo, il collezionismo pure.
NSU Prinz 4
Se la passavano tutti. No, non perché fosse di facili costumi, o la più ambita. Tutt’altro. Se la passavano perché era la più temuta. Qualcuno, chissà chi, aveva generato la leggenda poco urbana che portasse sfiga al solo avvistamento, secondo un indice che variava a seconda dei colori della carrozzeria: bianco, azzurro, rosso. La più temuta era la verde. Gli interni neri e viola raddoppiavano automaticamente il carico di picche: da passare subito e senza ritorno. Le quattro suore a bordo costituivano un plus fatale. La NSU Prinz ha diviso i detrattori dai fedelissimi. Soprattutto italiani, visto che a ridosso del 1970 la stragrande maggioranza era venduta da noi. Un’utilitaria, sì, ma di qualità: una 3 volumi “tutto dietro”, motore raffreddato ad aria e cambio a cinque marce. Sedili reclinabili, dotazione di rispetto e, soprattutto, una scocca d’acciaio che non si disintegrava di ruggine. L’aspetto era buffo, quello sì, ma per i conoscitori era una piccola Chevrolet Corvair.
Rolls-Royce Camargue
I tradizionalisti più retrivi non la guardavano nemmeno come una Rolls. Forse perché la Camargue fu la prima dal dopoguerra a non essere stata progettata internamente, o carrozzata da Mulliner-Park Ward. Il compito di dare una rinfrescata alla due porte di lusso toccò a Paolo Martin della Pininfarina. Non proprio l’ultimo arrivato: aveva appena disegnato la Ferrari Modulo 512. Le linee tese, il piglio modernista del frontale con i doppi fanali (da Prinz 1000), la griglia inclinata di 7° e il retro da berlinona all’italiana non le garantirono l’accesso a corte. E questo nonostante la Camargue fosse l’ammiraglia della real casa RR. L’auto di serie più costosa al mondo, per dire. Brian May ha commentato che, più che inelegante, “ha una certa presenza, come quel tizio con la faccia da carlino, ma ben vestito, in fondo al pub”.
Porsche 914
Adesso che fa furore tra i collezionisti, alles gut. Ma quando uscì fu subito definita la Porsche dei poveri – o il Maggiolone dei ricchi, dati il boxer e la joint venture con VW. Quella dei “vorrei ma non posso”. La 914 era una bella Targhetta dalla linea tagliente. Abitabile, equilibrata. Le sospensioni indipendenti sulle quattro ruote con barre di torsione assicuravano il piacere di guidarla. Pagò il compromesso storico: troppo costosa per essere un’Auto del Popolo, troppo economica per una dei ricchi. E non proprio un fulmine di guerra. La 914 standard montava il boxer 4 cilindri VW da 1.679 cc a iniezione da 80 cv. La S, il flat six Porsche a due carburatori della 911 T da 110 cv. Le cose non andarono meglio quando, ritiratasi la VW, Porsche insistette con la decrescita di cilindri e potenza dei suoi boxerini.
Ferrari Mondial 8
Dicevamo di Pininfarina. Quando Ferrari addossò a Bertone la responsabilità della carenza di carisma della Dino 308 GT4, per la nuova 2+2 decise di tornare ad affidarsi al suo carrozziere di riferimento. L’accoglienza al Salone di Ginevra dell’80 non fu proprio entusiastica: la Mondial 8 appariva un po’ molle. Al pari del rapporto peso-potenza, 1.585 kg per appena 214 cv dell’8 cilindri 3 litri, in posizione centrale-trasversale. Barchetta sì, non certo offshore, con 230 km/h di velocità di punta. Le cose migliorarono un paio d’anni dopo con l’arrivo del motore Quattrovalvole e della versione cabrio, più elegante e filante rispetto alla coupé. Nonostante il debutto dell’iconico “pettine” sulle fiancate, fino a poco tempo fa la Mondial 8 era ancora al primo posto nella classifica delle Ferrari più sottovalutate. E non è che sia scesa molto.
Alfa Romeo 155
Neppure la 155 ebbe grande fortuna: dati alla mano, risulta appena la 16ª Alfa Romeo più venduta di sempre – in testa alla classifica c’è la 33, curiosoni. Eppure quando correva, era abituata a vincere ovunque mettesse le gomme: Europeo Superturismo, DTM tedesco, BTCC britannico, Turismos spagnolo e Superturismo jugoslavo. Per l’ultima volta, sotto il cofano pulsavano i bialbero 2.0 Twin Spark dell’Alfa 75 e il 16v “Pratola Serra”. Oltre al 2.0 turbo 16v derivato dalla Lancia Delta HF e il V6 Busso, che è un totem per le youngtimer di Arese. E allora? Con la trazione anteriore e il pianale condiviso con la Tipo, non era più un’Alfa. Era una Fiat travestita, nonostante la linea a cuneo tipica di quegli anni e gli ottimi interni disegnati da Walter De Silva. Non aiutò il fatto che fosse costruita a Pomigliano d’Arco, con i noti problemi di controllo qualità che accentuavano la componentistica mediocre.
Chrysler PT Cruiser
Gli inglesi avevano la nuova Mini, gli italiani la nuova 500, i tedeschi il New Beetle. Gli americani? La PT Cruiser, che ripesca dalla heritage dell’automobile Made in USA citando esplicitamente le DeSoto Airflow degli anni 30 e la grinta da street rod della Plymouth Prowler. La rivista americana Motor Trend la definì “Car of the Year” e anche al Salone di Detroit del 2001 fu patriotticamente eletta North American Car of the Year. Al pubblico ricordava la Batmobile. Senonché pesava parecchio e il 4 cilindri non era Bruce Wayne, ma Chrysler: quindi sfiatato, assetato, mangiaolio. Con l’imbarazzo della scelta quanto a problemi elettrici. Non il genere di auto che il Cavaliere Oscuro avrebbe scelto per dare la caccia al Joker, ecco. Da noi la comprarono solo gli americanofili, felici di trovare un daily driver a stelle e strisce pratico e persino Diesel.


Nissan Cube Z12
È l’unica auto che non avrà mai una versione Lego Technic. Per una ragione molto semplice: non occorre. Basta sovrapporre a due mattoncini da 6 buchi altri quattro da 4, aggiungere le ruotine ed è fatta. Provateci. La Cube è l’apoteosi formato monovolume delle kei car giapponesi. Levigata il giusto per togliere l’effetto-frigorifero delle versioni precedenti, asimmetrica nel design posteriore, parca nei consumi del suo 1.6 benzina e 1.5 Diesel. Dentro è un monolocale smart: trova spazio dove non pensate possa essercene. Sì, in autostrada denuncia il suo CX aerodinamico da console Nintendo, ma il passo è ben proporzionato alla lunghezza. Quando appare a Ginevra nel 2009 è quasi futuribile. Rompe gli schemi grazie alla geometria: un paradosso dinamico. Naah, troppo intelligente per funzionare.
L'intrusa: Aprilia Motò 6.5
Nell’euforia degli anni 90, tutto sembrava possibile sulle moto: anche che somigliassero a uno spremiagrumi, a una macchinetta per il caffè. Insomma, a un azzeccato oggetto di design che facesse un figurone in società e, all’occorrenza, curvasse. Mentre nel ’95 tutti pensavano al deserto, Ivano Beggio guardò a una moto, anzi una Motò che potesse occupare le vetrine del centro. Aprilia era un marchio giovane, fresco. Avanti. Che sapeva osare. Non per nulla, fu il primo a incaricare un designer di fama mondiale per un modello disimpegnato, stile libero. Il francese Philippe Starck non deluse trasformando la piattaforma della monocilindrica Pegaso in una sensazione. I motociclistoni fecero una smorfia. Gli altri, quelli liberi dalla schiavitù della forma moto e dal giornalettismo specializzato, se la portarono in garage. Previdenti.