A Goodwood, Donington Park e ovunque si parli inglese, il rapporto della trasmissione – la marcia – si pronuncia speed. Come velocità. Questo spiega perché nella Issue primaverile di Wheelz abbiamo deciso di occuparci dell’evoluzione del cambio automatico sulla moto. Che è un’invenzione meno recente di quanto si pensi, ma è comodissima, in costante evoluzione e inclusiva.

Un po’ come i guanti, il cambio manuale ha sempre segnato il confine tra il motociclista autentico e il semplice utente delle due ruote.

Per il comune bipede implume che volesse mettere le ali da centauro, l’interazione armonica di orecchio (per ascoltare il motore), mano e piede sinistri è sempre stata un po’ intimidatoria. Ciò ha probabilmente confinato allo scooter parecchi potenziali motociclisti. Nell’era della moto digitale, più o meno intricata di fili, sensori e centraline, questo non accade più. Il cambio automatico è un soffio leggero che interagisce con l’antislittamento, l’antisaltellamento, il controllo di trazione, la modalità di erogazione e altri prodigi dell’elettronica. Consente di salire e scendere di rapporto senza prendere a schiaffi il motore; e di non soffrire più le variazioni di carico fra l’avantreno e il posteriore, provocate da certe trasmissioni dure e infinite come un inverno con il letto vuoto.

C’è anche un’altra connessione fra speed e marcia: l’esigenza di una cambiata sempre più rapida e precisa è sempre stata avvertita, prima di tutto nelle corse. Già il regolamento del primo Senior TT dell’Isola di Man edizione 1911 stimolava i piloti a adottare tecnologie già comuni sulle auto.

Per esempio la frizione, che non obbligava a riavviare il motore a scalciata o a spinta dopo ogni sosta; e almeno due rapporti a disposizione, che variassero la coppia motrice per affrontare rettilinei e salite con la trazione più appropriata. Se vogliamo, la prima pietra miliare dell’automazione del cambio fu posta centodieci anni fa. Già nel 1913 la Rudge “Multi” fu dotata di una rudimentale trasmissione a puleggia variabile per combattere lo strapotere delle Indian, e funzionò.

Sempre all’Inghilterra, stavolta durante Seconda Guerra Mondiale, si deve lo sviluppo della puleggia variabile sulla Welbike, una motina pieghevole in dotazione ai paratroopers di Sua Maestà.

Nel ’59 sarebbe stata addirittura Harley-Davidson a sceglierla per un modello di serie: non la FL Hydra Glide (dove pure lo spazio non mancava: il cambio era separato), ma lo scooter Topper. La trasmissione “Scootaway” a cinghia offriva due marce per altrettante pulegge di diametro diverso, azionate dalla frizione centrifuga.

Alle raffinate sport e turismo italiane si doveva l’affinamento della precisione delle trasmissioni, anche a cinque marce. I primi tentativi di… cambio semiautomatico si devono ai piloti dell’epoca. Dotati di una sensibilità meccanica fuori dall’ordinario, cominciarono a salire – i più bravi anche a scalare – di marcia senza perdere tempo a tirare e rilasciare la frizione. Così, a orecchio.

Con il tempo, il sesto senso dell’ingranaggio è diventata un’arte appresa anche dai motociclisti stradali più sportivi. Per quanto resti tuttora delicata: se praticata in modo distratto, crea l’orrore delle sfollate e dei tricchettracche di denti dritti.

Negli anni 60 entrarono finalmente in gioco i giapponesi con i loro buffi animaletti carenati. Il Silver Pigeon della Mitsubishi insisteva sul concetto della puleggia variabile, oggi largamente diffuso sulle motoslitte. Invece lo scooter Rabbit della Fuji (oggi Subaru) introdusse un convertitore di coppia a tre elementi detto “scatola nera” per rendersi puccioso e guidabile da tutti – “anche alle signore”, recita una pubblicità dell’epoca, oggi autolesionista. Entrambi funzionavano piuttosto bene, pur restando incapaci di gestire con regolarità il numero di giri ideale per la cambiata.

Fra giudizio e pregiudizio, come sempre la motocicletta continuava a inseguire l’auto, che già nel 1940 aveva introdotto il cambio automatico di serie Hydra-Matic a quattro rapporti e senza frizione sulle Oldsmobile.

Uno dei problemi principali erano i volumi: dai pachidermi a stelle e strisce alle agili motoleggere europee e giapponesi si spalancava l’abisso. Nonostante nei decenni i motociclisti si fossero messi il cuore in pace (bisogna imparare a cambiare e basta), ancora una volta l’ostinazione e la finezza meccanica nipponiche tornarono ad alzare l’asticella negli Anni 70 con le Hondamatic da 400 e 750 cc, a sistema idraulico.

Parallelamente, sullo stesso principio, nel ’74 il geniale Lino Tonti mise a punto il convertitore progressivo idraulico di coppia della Moto Guzzi V1000 I-Convert, accoppiato a un cambio a due rapporti. Questi slanci pionieristici ebbero vita breve, anche se delle delicate Guzzi Idroconvert furono costruiti 5.500 esemplari circa.

Il successivo passo avanti nel ’96 batteva ancora bandiera tricolore: le Vespa ET2 ed ET4 furono le prime a disimpegnare la mano sinistra con il loro cambio automatico a variazione continua. E c’era un po’ d’Italia anche nel cambio automatico sequenziale Badalini (ribattezzato HFT, Human Friendly Transmission) introdotto sulla cruiser Honda DN01, che sfruttava la pressione dell’olio in circolazione nel motore per determinare i rapporti.

La perseveranza tipicamente giapponese al miglioramento mise i frutti al Salone di Tokyo del 2009 con la VFR1200F, la prima moto al mondo dotata di cambio automatico a doppia frizione. Yatta!

La facciamo breve. Le due frizioni lavorano alternativamente sugli ingranaggi dei rapporti pari e dispari. La prima aziona la marcia desiderata, l’altra ingrana la marcia precedente o successiva rispetto a quella già inserita, così che questa sia già pronta a entrare in azione senza tempi morti e con maggior fluidità quando lo decide il cervello umano. Oppure quello della centralina, se si guida in modalità automatica.

Grazie alle palette, il DCT può essere utilizzato in entrambe le modalità e fa scomparire la leva sinistra dal manubrio. Il pedale del cambio? Resta in optional, per i momenti di romanticismo. L’ingegner Dai Arai, a capo del progetto, spiega come “il DCT coinvolge complessivamente molti meno elementi, donando così una sensazione più piacevole e sportiva della guida. È stata la prima volta nella storia in cui ingegneri di trasmissione sono stati coinvolti nel campo dei controlli elettronici“.

È questo lo spartiacque, il vero balzo in avanti: l’idraulica e la meccanica cedono il testimone all’elettronica.

Occorre anche dare ad Aprilia ciò che è di Aprilia, che sempre nel 2009 riusciva ad applicare la trasmissione automatica a variazione continua CVT (il variatore tipo Vespa, per capirsi) alla Mana GT 850.

Nonostante la diffidenza del grande pubblico dei motociclisti che ormai padroneggiavano la tecnica (“L’automatico è per le fighette“), la bontà del DCT ha convertito molti scettici: nel 2019 le Honda a doppia frizione hanno raggiunto i centomila esemplari venduti in Europa. Senza parlare di chi soffre le menomazioni agli arti, ora non più costretto a complesse modifiche ai comandi della propria motocicletta.

A Tokyo fanno le cose per bene anche sui modelli on/off come la CRF1000L Africa Twin e la X-ADV, che vantano la modalità G per l’offroad con entrambe le frizioni sempre in presa: in questo modo si ha più feeling alla ruota posteriore per controllare la derapata. Sulla Gold Wing, l’interazione con il throttle-by-wire accorcia i tempi di cambiata. “Personalmente mi piacerebbe moltissimo vedere il DCT equipaggiato sulle nostre moto che partecipano alla Dakar“: se lo dice Arai, non manca molto…

E le corse, la MotoGP? Con la doppia frizione proibita per regolamento, è stato perfezionato il cambio seamless (a innesti senza soluzione di continuità), introdotto per la prima volta nel 2010 dalla solita Honda sulla RCV. L’aggettivo “solita” è attribuito per il potenziale a disposizione della Casa di Tokyo: gran parte della tecnologia è stata mutuata dal programma Formula 1.

Il seamless impedisce il minimo squilibrio di assetto durante i 0,010 secondi del tempo di cambiata, per quanto impercettibile ai comuni mortali. Un argomento sensibile soprattutto in percorrenza di curva, in fatto di grip. Nonché nel risparmio di decimi di secondo: considerando una trentina di cambiate al giro, è presto calcolato.

E ciao “clonk!“.

All’inizio l’innovazione era talmente segreta che la HRC le aveva dedicato un addetto alla sicurezza sempre presente nel paddock. Il primo cambio seamless contava il triplo delle parti (per non dire dei costi) rispetto a una trasmissione ordinaria. E pensare che oggi si trova online, scaricabile in PDF…

In ogni caso, il gap tra le RCV e le altre è stato così sensibile, che il resto del paddock ha dovuto accodarsi con soluzioni leggermente diverse (all’inizio il seamless Yamaha funzionava solo a salire), ma efficaci. E in ogni caso, unicamente racing.

Se mai, ora la sfida tecnologica è portarlo su strada. Nel 2018 Yamaha per la R1 e, un paio d’anni dopo, Ducati hanno depositato il loro brevetto per rendere le loro ipersportive ancora più iper: a quando la prima Panigale automatica?